sabato, maggio 29, 2010

Amilcare

C'era un rumore fastidioso sullo sfondo. Amilcare si tirò sù dalla sedia sdraio dove stava facendo parole crociate, sul balcone, cercando invano di sfuggire all'afa di quel pomeriggio estivo. Con le dita dei piedi cercò in terra le ciabatte, mentre arcuando la schiena si sporgeva per capire da dove provenisse quello stridio insopportabile.

«Tatiana! - gridò raspandosi la gola con la sua voce rauca - Tatiana dove sei?»

La sua badante, Tatiana, era una ragazzotta straniera attorno alla trentina, che probabilmente non pesava meno di centocinquanta chili. Alta il doppio di Amilcare, era abbastanza robusta da sollevare il vecchio pensionato come se fosse un sacco di piume. Tatiana si prendeva 400 euro al mese, e trascorreva con Amilcare tutte le mattine, cinque giorni a settimana. Amilcare aveva imparato a non curarsi di lei, non le parlava e non le lasciava da fare le cose: Tatiana sembrava sapere tutto quello che c'era da sapere su come si gestisce una casa. Sapeva dove mettere le cose, quali pulizie fare, come sistemare i vestiti, cosa comprare per pranzo, e come cucinarlo. A fine mese prendeva i suoi 400 euro, e Amilcare si era abituato a lei tanto quanto all'assenza della sua cara moglie. Tatiana forse aveva lasciato la televisione accesa, oppure stava ascoltando qualcosa col suo i-pod e il brusio della musica a bassissimo volume, rimbombando nel suo apparecchio acustico, finiva per creare quel fischio. Forse.

«Tatiana? ...sei ancora in casa? Tatiana!» Ma nessuna risposta. Amilcare era solo. Con la mano tremante si tolse l'apparecchio dall'orecchio destro. Forse era difettoso. Il silenzio calò attorno a lui, quel silenzio naturale che lo cullava la notte quando era solito togliere quella scatoletta rosa da dietro l'orecchio per aiutare il sonno a trovare la strada di casa.

Ma niente da fare: quel suono stridulo, costante, trascinato... era ancora lì, ancora nella sua testa, ronzando continuamente sembrava rimbombargli fra le tempie senza nessuna intenzione di smorzarsi.

Amilcare barcollò per un attimo quando si sollevò in piedi. Poggiò l'apparecchio sul tavolinetto di vetroresina bianca, accanto al fodero degli occhiali e alla ciotolina con le pillole da prendere prima di cena. Scivolando sulla suola delle pantofole, raggiunse l'interno della casa. Un odore misto di cif e legno stagionato riempiva il soggiorno, colmo di mobili d'epoca che i giovani d'oggi si sognavano di comprare, all'Ikea. Il suono sibilava con più acutezza adesso, nonostante Amilcare avesse tolto l'apparecchio acustico. Forse era solo il silenzio, che lo rendeva ancora più insopportabile. Appoggiandosi a un comò quasi fece cadere la bomboniera del matrimonio di suo figlio, pietrificata su quel ripiano da vent'anni.

«Ah... forse ho capito... forse ho capito, razza di birbaccioni...» gongolò il vecchietto, tornando sui suoi passi e dirigendosi verso l'ampio ingresso. Col cazzo che potevano permetterselo, i giovani, un ingresso come quello. Bello ampio, con lo specchio, l'attaccapanni, la cassapanca e il quadro di un ciliegio in fiore. Adesso erano tutti openspace. O si entrava direttamente nel salotto. E chi poteva permettersi il lusso di un ingresso. Amilcare invece ce l'aveva. Frugò nella vestaglia a scacchi e tirò fuori la chiave dello sgabuzzino. «Mortacci vostra...» sussurrò mentre si chinava per infilare la chiave nel piccolo foro della porticina di legno. Era laccata di bianco, nascosta a due passi dall'ingresso, su un lato del corridoio. Alta appena un metro, Amilcare ci giocava con suo figlio quando lui era piccolo e si divertiva a nascondersi per casa. Quello era il suo nascondiglio preferito, e Amilcare faceva finta di non trovarlo per un sacco di tempo, aggirandosi per casa e bofonchiando “dove diamine si sarà cacciato quel ragazzino?”... e dallo sgabuzzino lo sentiva ridere. Che bei tempi.

Non c'era dubbio, il suono fastidioso veniva da là dentro. La chiave fece un paio di giri, Amilcare aprì la porticina. Ed eccolo lì. Un telefono cellulare acceso che col suo schermo luminoso illuminava debolmente l'angusto spazio davanti a lui. Tatiana doveva essersi dimenticata di perquisire l'ultimo rompiscatole, prima di gettarlo dentro. Amilcare si chinò in avanti, subendo in un istante tutti i dolori che la sua malandata schiena avrebbe avuto piacere di fargli provare in un pomeriggio intero. Raccolse il cellulare e iniziò a pigiare i tastini luminosi, azzeccando a caso il pulsante per spegnerlo. Il suono cessò.

Dal fondo della stanza strisciò verso la porticina il signor Romualdo. O Ronaldo? Qualcosa del genere. Coperto di polvere, denutrito, spettinato, ma ancora di aspetto rispettabile con la sua giacca scura e la cravatta rossa. I polsi legati e le caviglie bloccate gli impedivano di muoversi in altro modo. Aveva gli occhi gonfi di lacrime. Provò a bofonchiare qualcosa, ma con quello straccio infilato nella bocca era difficile farsi comprendere. Amilcare provò a interpretare.

«No, non la cambio la mia cazzo di tariffa della luce!» Gli rispose, secco.

Romualdo mise la testa fuori dallo sgabuzzino mugugnando più forte. Amilcare lo afferrò per i capelli e lo spinse di nuovo dentro.

«...ah era il contratto del telefono? ...o del gas? ...non importa! Non me ne frega un cazzo! Lasciami in pace, capito?»

Richiuse veloce la porticina, ignorando i colpi che provenivano dall'interno. La porticina era robusta, legno massello, mica come quelle porte di compensato che mettevano al giorno d'oggi nelle case fresche di costruzione. Amilcare si spostò a fatica fino in cucina, gettò il cellulare nella spazzatura, e si voltò per tornare indietro. Notò un biglietto giallo attaccato sul frigo. Strizzando gli occhi lo lesse. Diceva: “Finisco domani il testimone di Geova, vado a prendere Wadim che esce prima – Tatiana”.

«Eh la fretta! – borbottò Amilcare – E poi lo vediamo tutti come finisce. Che le cose si fanno a metà, si lasciano in sospeso...»

Dondolando precariamente tornò sul terrazzo. L'afa pomeridiana stava lasciando il posto alla frescura della sera. Quello era il momento migliore per godersi un po' d'aria in veranda. Che le case di adesso non ce le hanno più le verande, e nemmeno i terrazzi spaziosi come ce l'aveva casa di Amilcare, perché non conviene più farle. Chi se le può permettere? Il vecchietto si accasciò sulla sedia sdraio e allungò le dita per raccogliere l'apparecchio acustico dal tavolino. Poi ci ripensò. Tatiana aveva lasciato il lavoro a metà, non gli andava di sentir gemere e raspare sul legno per tutta la notte. Silenzio ci voleva. Altro che contratti della luce o del telefono, quello vendeva religione... a saperlo prima, Amilcare gli avrebbe offerto un bicchiere d'acqua. Inforcò gli occhiali, stese la testa e scacciando via altre riflessioni amare, lesse con attenzione la definizione del 14 verticale.

Magliette da vero geek

Ho trovato, su suggerimento della pagina ufficiale di D&D, questo sito che vende magliette e capi di abbigliamento per "geek". Per chi non lo sapesse, il geek è un tipo di nerd particolare. Negli usa la parola "nerd" non sta a indicare esattamente la stessa cosa che qui in Italia, il nerd americano è lo studentello gracile, occhialuto, secchione e sfigato con le donne; non c'è nessuna connotazione relativa ai suoi hobby, anche se si può dare per scontato che stia ore davanti al computer. Il geek è quello che gioca ai giochi di ruolo, legge fumetti, partecipa alle convention di otaku, si uccide di videogames e parla continuamente solo di questi argomenti. Da noi il termine "nerd", quando viene usato, di solito si riferisce al geek. Beh il sito che vende abbigliamento per geek.

E queste tre magliette sono fichissime! :D



venerdì, maggio 28, 2010

Header

Questo è il nuovo header del blog. L'ho fatto un po' di fretta ma mi piace. E' un panorama desolato eppure significativo. Si adatta alla mia personale visione del fantasy, e anche della vita.

domenica, maggio 23, 2010

Leopardi

Siccome ultimamente il mio umore non era dei migliori, ho pensato bene di immergermi completamente nella lettura di Giacomo Leopardi. Ho apprezzato il lato più stronzo di Leopardi, quello cinico per il quale l'uomo è la creatura più antisociale che esiste e ognuno di noi è solo e nemico di ogni altro, quindi occorre essere egoisti per sopravvivere. E assieme al suo lato stronzo ho apprezzato anche altre piccole caratteristiche, a me inedite, del suo carattere. Tutti i brani che seguono sono tratti dallo Zibaldone.

"La stagione e il clima freddo dà maggior forza all'agire, maggior contentezza del presente, inclinazione all'ordine, al metodo. Il caldo scema la forza di agire, rende suscettibili alla noia, intolleranti all'uniformità della vita, vaghi di novità, malcontenti di se stessi e del presente."

"L'amor proprio e quindi l'infelicità sono in proporzione diretta del sentimento della vita. Gli uomini sensibili, di cuore, di fantasia, insomma di animo mobile, suscettibile e più vivo in una parola degli altri, sono delicati e deboli di complessione, e ciò così ordinariamente che il contrario sarebbe un fenomeno. La vita è il sentimento dell'esistenza, e l'esistenza può essere maggiore senza che lo sia la vita."

"Son da ammonire i principianti della vita, ché se intendono di vivere (...) s'armino di tanta dose di egoismo quanta possano maggiore, acciocché la reazion loro sia o maggiore o perlomeno uguale all'azione degli altri contro di loro. Ché se il cedere per forza, cioè per causa della propria impotenza è miserabile, il cedere volontariamente, cioè per mancanza di sufficiente egoismo (...) è ridicolo e da sciocchi, e da inesperto e irriflessivo. E si può dire con verità che il sacrificio di se stesso, il quale in tutti gli altri tempi fu magnanimità, in questi è viltà, e mancanza di coraggio o d'attività, cioè pigrizia, e dappocaggine; ovvero imbecillità di mente."

giovedì, maggio 13, 2010

Il perdente radicale

"Parlare del perdente è difficile, e sciocco non parlarne. Sciocco perché il vincente definitivo non può esistere e perché a ciascuno di noi è riservata la stessa fine [...]. Difficile perché è troppo facile accontentarsi di una simile banalità metafisica. In tal modo, infatti, non si coglie l'effettiva dimensione dirompente: quella politica. Invece di decifrare i mille volti del perdente, i sociologi si attengono alle loro statistiche: valore medio, deviazione standard, distribuzione normale. Raramente arrivano a ipotizzare che potrebbero a loro volta fare parte dei perdenti. Le loro definizioni sono come quando si gratta una ferita: stando a Samuel Butler, quella poi prude e duole più di prima. Fatto sta che da come l'umanità si è organizzata - capitalismo, concorrenza, impero, globalizzazione - non solo il numero dei perdenti aumenta di giorno in giorno; come in ogni compagine di massa presto si verifica un frazionamento; con un processo caotico e indecifrabile le schiere dei soccombenti, dei vinti, delle vittime si scindono fra loro. Il fallito si rassegna alla propria sorte, la vittima chiede soddisfazione, il vinto si prepara alla prossima tenzone. Ma il perdente radicale si ritrae in disparte, diventa invisibile, coltiva il suo fantasma, raduna le proprie energie e attende la sua ora."

Incipit di Hans Magnus Enzensberger, Il Perdente Radicale, Einaudi
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