giovedì, marzo 31, 2011

Drizzit 32

Credo che il personaggio della mamma di Wally, nonostante non avessi minimamente intenzione di darle spessore, sia risultato molto interessante. Forse dovrei scrivere qualche altra striscia che ne parla, in futuro.

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mercoledì, marzo 30, 2011

Drizzit 31

Non voglio tirarla per le lunghe. E' che mi diverte raccontare certe cose.

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martedì, marzo 29, 2011

Altrove


Correrò il rischio di starmene in silenzio. Spero non dispiaccia a nessuno se in questi giorni aggiornerò un po' di meno il mio blog. Non temete, ho programmato la pubblicazione delle strisce di Drizzit, tutte le notti ne verrà pubblicata una allo scoccare di mezzanotte e uno. Per quanto riguarda me, ho bisogno di leggere più di quanto ne abbia di scrivere, o forse di scrivere più di quanto ne abbia di ascoltare, non lo so bene ancora. In ogni caso credo che Drizzit parlerà al posto mio per un po'. Mi troverete altrove.

Drizzit 30

Mi è sembrata una buona idea disegnare Drizzit con il braccio fasciato per un po' di tempo. Rende realistico lo scontro quasi mortale che ha dovuto affrontare. Lo so sono dettagli che in una striscia forse non hanno senso di essere, ma non credo siano fuori luogo. Per quel che riguarda la battuta, io non ho mai voluto fare di Drizzit una striscia a fumetti per bambini. Certo lo stile del disegno è cartonesco, e si tratta senza dubbio di una striscia umoristica, ma non voglio essere costretto a togliere una parolaccia o una decapitazione cruenta, quando mi sembrerà il caso. E da domani inizia la storia di Wally... :)

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lunedì, marzo 28, 2011

Drizzit 29

Ehi Drizzit è vivo. Ma scommetto che se l'aspettavano un po' tutti. Difficile mettere in piedi un colpo di scena efficace, se il nome del presunto morto è anche il titolo della tua striscia a fumetti.

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domenica, marzo 27, 2011

"Io sono di Sinistra"



Credo che si possa tranquillamente lasciar parlare Ascanio Celestini, e limitare a fare sì con la testa, tra mestizia e desolazione. Per chi non lo conoscesse, qui c'è anche il suo sito internet.

Drizzit 28

Introducendo il tema della prossima serie di strisce (ovvero il passato di Wally) si conclude così il terribile scontro tra Drizzit e l'uber-orco. Alcune note a margine: tecnicamente, Katy Brie non deve 100 monete a Dotto, ma lei ci prova sempre; non era mia intenzione lasciare in sospeso la sorte di Drizzit, ma... non c'era spazio e alla fine rimandare la questione mi è sembrata una soluzione azzeccata; ebbene sì Wally dormiva sotto un pero, ma il pero non ha niente a che fare con il suo passato.

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sabato, marzo 26, 2011

La magia del volto umano

Non sono mai stato portato per i ritratti. In tutta la mia vita ne ho disegnato uno solo, anzi due. Riprodurre con esattezza il volto di una persona richiede molto di più che una semplice bravura con la matita, bisogna conoscere bene la fisionomia dei volti, e il modo in cui un volto viene percepito.
Una volta lessi su un libro che quando lo sguardo si fissa su un volto, l'occhio "vaga" all'interno dello spazio della faccia soffermandosi principalmente su occhi e bocca. Cioè il nostro occhio, e di conseguenza il cervello, analizza un volto principalmente (per il 90%) basandosi su occhi e bocca. Solo nel restante 10% del tempo trascorso ad osservare una faccia, lo sguardo si sposta, e per brevi secondi, su altri dettagli come naso, orecchie, mento, zigomi eccetera.
Questo spiega tra l'altro perché mettere una pezza nera sugli occhi di una faccia la rende difficile da riconoscere (è il modo con il quale si censurano spesso i volti). E questo la dice anche molto lunga su quanto sia deficiente il costume di Diabolik... ma questo forse è un po' fuori tema.
Insomma un ritrattista dovrebbe sapere che se riesce a disegnare con sufficiente somiglianza gli occhi e la bocca di una persona, chi guarda quel volto lo riconoscerà quasi sicuramente. Al contrario soffermarsi su altri dettagli, come la forma del naso, è assolutamente secondario. Eccovi svelato uno dei trucchi. Ma ce ne sono altri, moltissimi credo, che si imparano proprio facendo pratica nel ritrarre le persone. Ad esempio fu Alessandro Chiarolla a spiegarmi, una volta, che il naso e le orecchie di una persona, continuano a crescere sempre, con l'età, non si fermano mai. Quindi per dare a un volto un'aria da anziano, basta ingrandire un po' le orecchie e il naso. Mentre se si ritrae il volto di un bambino, conviene non mettere in evidenza il naso, così risulterà giovanile. Se ci pensate, è anche il motivo per cui molti disegnatori non si soffermano sul naso quando disegnano una donna (vedi molte tavole di Giovanni Freghieri o di Milo Manara). Più metti in evidenza il naso, più il volto perde in dolcezza.
Qualcosa la so pure io, che non ho frequentato né corsi né scuole di disegno, ma la so più per caso che per altro. Quindi ritratti no.

Però la fotografia mi ha permesso di giocare un po' con la mia faccia, gestendo la saturazione, la luce, applicando alcuni filtri grafici. E' difficile ottenere un'immagine della propria faccia che non sembri a nostri stessi occhi deforme (vedi le foto spaventose su patenti e carte di identità). Questo perché il cervello, quando ci guardiamo in faccia (ad esempio allo specchio) cerca di "pareggiare" i conti. Cioè la nostra percezione del volto di noi stessi non è reale. E' come la voce che udiamo uscire dalla nostra gola: in realtà non è la stessa che sentono gli altri, perché quella che sentiamo noi "rimbomba" nel nostro corpo e ci risulta diversa. Lo stesso -più o meno- con la faccia: siamo così abituati a vederci, che il cervello quando ci guardiamo "soprassiede" a molti dettagli che invece non sfuggono alla macchina fotografica. Ad esempio noi tendiamo a percepire il nostro volto simmetrico, quando non lo è affatto. Uno dei nostri occhi magari è un po' più in alto, il naso piegato un po' a sinistra, un sopracciglio è più folto o più lungo, l'attaccatura dei capelli non è a metà della fronte, o la punta delle labbra non si trova esattamente sotto il naso. Sono tutti dettagli che quando ci guardiamo in faccia, non notiamo, perché siamo abituati a non vederli. Occorre mettersi davanti a uno specchio e passare parecchi minuti prima di notare davvero quanto è storta la nostra faccia.
E sapete qual'è la cosa bella? Che la "stortura" del nostro volto, di tutti i nostri volti, a livello conscio non la percepiamo, ma a livello inconscio la riconosciamo alla grande. Per questo quando guardiamo un film in computer grafica, di quelli di ultima generazione che magari tentano di riprodurre perfettamente esseri umani come in Final Fantasy - The Spirit Within (ma anche nell'ultimissimo Tron Legacy), ci risulta così facile riconoscere un volto riprodotto al computer rispetto a uno vero. Perché per quanto un grafico di talento possa aggiungere imperfezioni a un volto digitale, il nostro cervello registra che "non sono naturali" e percepisce che c'è qualcosa di sbagliato.

C'è qualcosa di magico in tutto questo. Valeva la pena condividerlo.
PS perché sono il numero 37 lo racconterò... un'altra volta.

Drizzit 27

Eheh mi piace la dinamica di queste quattro vignette. Mi ricorda quella dei vecchi cartoni animati. Come avevo scritto per la striscia precedente, avrei preferito disegnare molte più sequenze di combattimento tra Drizzit e l'uber-orco, ma alla fine non mi sembrava pertinente al tipo di fumetto. Però ho sempre voluto dare per palese che Drizzit, anche se imbranato e molto ingenuo, sia un combattente di tutto rispetto. Questa cosa mi pare che sia perfettamente in sintonia con il suo passato: Drizzit è un elfo scuro, è stato addestrato come guerriero per anni e sicuramente in futuro dovrò sviluppare meglio questo suo aspetto.

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venerdì, marzo 25, 2011

A proposito di giustificazioni

Di nuovo, mi sento in dovere di consigliare un articolo apparso sul Fatto Quotidiano riguardante il reale fabbisogno elettrico dell'Italia. Al di là di quello che c'è scritto (se vi interessa, leggetelo), mi sembrava interessante riflettere sul pretesto iniziale del pezzo. E cioè il fatto che tutti dicono: "compriamo l'elettricità dalla Francia, tanto vale mettere anche noi le centrali nucleari".


Lo si sente dire spesso. E' una frase che rientra nella grande categoria delle "supercazzole giustificate dalle supercazzole" ...una categoria, modestamente, di mia invenzione. Cioè è come quando qualcuno ti dice: ehi stai buttando la cartaccia a terra! e tu gli rispondi: ma lo fanno tutti!
Ecco: supercazzola giustifica supercazzola. Qualche giorno fa quel coglione di Giuliano Ferrara ha montato su una puntatina della sua trasmissione sull'evangelico "chi è senza peccato scagli la prima pietra" e partendo dalle parole di Gesù intendeva giustificare le puttanate (letterali) del nostro presidente del consiglio. Ma Gesù certo non intendeva dire che se esiste un malcostume, allora si è giustificati. Gesù insomma non giustificava le supercazzole con le supercazzole.
Forse Ferrara scambia Gesù con Craxi (capita spesso, soprattutto a una certa corrente politica), il quale, Craxi, quando fu chiamato in parlamento a giustificare i soldi che si era fregato e le mazzette che giravano nel suo partito, si giustificò dicendo più o meno: ma lo fanno tutti!

Bisognerebbe prendere il coraggio a due mani e cominciare a dire che se una cosa fa schifo, se un comportamento è ingiusto, degradante, violento, ignobile, deprecabile... beh lo resta anche se ci sono esempi numerosi e illustri che ne fanno sfoggio. Perché l'umanità procede verso livelli di civilità e di progresso maggiori, indipendentemente dall'esempio di questi esseri (anzi direi, nonostante l'esempio di questi esseri), e bisogna smettere di giustificare lo schifo con lo schifo. O la supercazzola con la supercazzola.

Drizzit 26

Come promesso, ecco la nuova striscia di Drizzit in anticipo di un giorno. Avrei voluto disegnare un sacco di scene di combattimento, ma bisogna sempre fare i conti col fatto che Drizzit è una striscia a fumetti, non un fumetto vero e proprio. Nonostante questo, mi sembra che lo scontro tra l'elfetto e il colosso meccanico si sia sviluppato bene, in questa e nelle prossime vignette si vedono i due combattere.

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giovedì, marzo 24, 2011

Dylan Dog me lo vedo in streaming

Ho letto la recensione del film di Dylan Dog scritta da Stefano Feltri per Il Fatto quotidiano. Devo premettere che non mi aspettavo, dal film, niente di diverso. Mi chiedo come mai, ma alla fine non riesco mai ad essere stupito, nel male, da certe produzioni. Ad esempio, non avrei mai scommesso un centesimo sul film di Kyashan. E non mi aspetto di certo un capolavoro se un decidono di fare il film de La Lega degli Straordinari Gentleman di Alan Moore. Diciamo che di default, mi aspetto delle cagate incommensurabili. Ben vengano quindi i risultati positivi (che siano o meno capolavori) come Watchmen, Il Cavaliere Oscuro, Kick-Ass.

Poiché un film è una "creatura" molto diversa da un fumetto, occorre sempre rimaneggiarlo. E il rimaneggiamento può essere affidato (capita spesso) a persone che dell'opera originale non hanno colto una mazza, o che per esigenze di produzione sono costrette a fare scelte più popolari e meno rispettose dello spirito della fonte originale. Insomma è più facile che un film tratto da un libro, o da un fumetto, sia più "povero" della sua fonte, anziché il contrario (e di questo tutti siamo consapevoli).

Insomma non mi aspettavo che Dylan Dog fosse un capolavoro di film, immaginavo, presagivo, mi aspettavo una mezza stronzata. Da vedere, una volta, per curiosità. Certamente non da premiare con l'acquisto di un dvd, e nemmeno con 7 euro al cinema. In fondo a questo serve la pirateria, a far capire a chi confeziona stronzate che non hai approvato quello che hanno fatto. Se vai al cinema e gli lasci 7 euro, cosa gliene frega ai produttori che il film ti ha fatto schifo? Tanto loro l'incasso l'hanno fatto lo stesso. Anzi, ne produrranno un altro, bissando e superando lo schifo nello schifo (ehi Daredevil ha fatto cagare, ma abbiamo riempito i cinema, lo facciamo Elektra?). Quando invece un film è bello, è giusto premiarlo con l'acquisto del dvd o del blue-ray o andando al cinema anche se l'hai visto scaricato. Perché allo stesso modo, chi ha prodotto il film se ne frega se a te il film è piaciuto, visto che il cinema è un industria e a fine mese tirano le somme dei soldi fatti. Se una cosa ti piace, occorre premiarla.

Quindi credo proprio che 'sto Dylan Dog me lo vedrò in streaming. E continuerò a leggere il fumetto. E se non l'avete fatto consiglio a tutti di leggere la recensione che citavo prima, la trovate qui.

Drizzit 25

Questo tipo di sequenza è un classico, ma era una tentazione troppo forte quella di realizzare una striscia del genere. Peccato che le dimensioni sproporzionate del mostro mi abbiano costretto a lasciare metà della seconda vignetta vuota. Comunque, domani (allo scoccar della mezzanotte) ne pubblicherò un'altra. Lo scontro tra Drizzit e l'uber-orco non può aspettare!

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martedì, marzo 22, 2011

Drizzit 24

Nelle vignette precedenti in cui Drizzit faceva uso di Abbaglio, avevo cercato di rendere l'effetto flash utilizzando diverse gradazioni di colore giallo, ma l'effetto non era eccezionale. Stavolta mi sono affidato alla "magia" della grafica digitale, applicando alla vignetta un filtro luminoso. L'effetto mi sembra migliore, e nemmeno tanto inappropriato.

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lunedì, marzo 21, 2011

A proposito di Questions...


«Quando Woody parla, il significato delle sue parole non muove mai alcun indicatore [di consenso, di applausi]. Woody Allen ha dato inizio a una nuova era emozionandoci metafisicamente, inducendoci a imparare mentre sorridiamo, e questo è l'unico modo in cui possiamo essere intellettualmente mossi a trascendere il nostro status sociale, e conseguente paura del fallimento, per esercitare invece la nostra opportunità, adesso chiaramente dimostrata, di rendere l'intera umanità un durevole, concreto e vivo successo.»

Queste parole fanno parte dell'introduzione a Inside Woody Allen, scritta da R. Buckminster Fuller e riportata nel volume La vita secondo Woody Allen, di Stuart Hample, ISBN edizioni.

Ho voluto riportarle qui perché io sono una di quelle persone che reputa Woody Allen un genio, e oltretutto un genio molto, molto divertente. Mi piace pensare che le persone alle quali non piace Woody Allen appartengano solo a due categorie: quelli che non lo capiscono, e quelli per i quali non vale la pena fare lo sforzo di capirlo (cioè essenzialmente le persone intelligenti ma pigre). Quando ho deciso di cominciare a scrivere le Questions, una serie di vignette che effettivamente non ha lo scopo di far ridere ma quello di far riflettere, ho cercato di trovare nella filosofia di Woody Allen una specie di via da percorrere. Mi sono detto: se una persona legge una delle mie Questions e la capisce subito, è un mezzo fallimento. Il mio scopo infatti era quello di spingere almeno un neurone a fare un salto. La reazione che vorrei vedere sulla faccia di un lettore è definita da tre fasi successive: fase 1, legge la vignetta; fase 2, resta interdetto per un secondo; fase 3, elabora una propria reazione alla vignetta. Quale che sia questa reazione poco mi interessa. Alcune vignette potrebbero essere divertenti per alcuni, irritanti per altri, scialbe per altri ancora, profetiche per certi altri. Non importa, l'importante era che non fossero immediate, che non parlassero al lettore superficiale o distratto, che richiedessero cioè una sorta di collaborazione da parte di chi le legge.


Non so se ci sono riuscito, forse no. Quel che è certo è che nella società delle scoregge incendiate e dei cinepanettoni, non mi aspetto che una follia del genere possa essere premiata dal consenso. Non si tratta di arroganza, non reputo il mio lavoro "migliore" in nessun modo a un libro di barzellette su Totti. Credo che si tratti di una differenza di spazio, cioè di dove "collocare" la propria opera. Le vignette di Drizzit, per dire, fanno parte di una categoria ben stabilità, che è quella delle strisce a fumetti. Stanno nello stesso cassetto assieme a Calvin & Hobbes, i Peanuts, Garfield e Sturmtruppen... senza minimamente voler fare alcuna comparazione dal punto di vista artistico (finirei spappolato)! Allo stesso modo, quando ho deciso di "collocare" in un cassetto le Questions, non volevo che occupassero uno dei soliti spazi, come la satira politica, o le vignette umoristiche da giornaletto. Volevo che si posizionassero su un piano culturalmente e intellettualmente più alto, ma senza che divenissero esclusive. Senza essere elitarie, senza essere snob.


E' questo il senso di quello che scrive Fuller riguardo alle strisce di Hample su Woody Allen. Quando parla Woody è difficile che sia il "significato" della battuta a strappare gli applausi. La maggior parte del pubblico resta interdetto, come se fosse sul punto di comprendere di cosa sta veramente ridendo, come se dovesse pensarci ancora un po'. Quello sforzino, necessario a comprendere il messaggio dietro l'ironia o il sarcasmo o il senso della battuta di Allen, ci costringe ad allenarci ogni volta. Ed è allenandosi in questo modo, un passo alla volta, uno sforzino per volta, invitati dalla curiosità di comprendere, stuzzicati dalla possibilità di ridere per un senso, o di condividere l'opinione dell'autore, che pian piano si spinge tutto il pubblico a trasformarsi in persone in grado di promuovere la società umana, a prescindere dal proprio status sociale (niente più distinzioni tra intellettuali e popolo) .


Ok forse sono ambizioso, ma da qualche parte dovevo cominciare, e mi sembrava una cosa importante cominciare da qui.

La scuola pubblica

Quasi in risposta alla supercazzola di Silvio, che un paio di settimane fa disse: "La scuola pubblica inculca idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie" ho trovato questa lettera di Lorenzo Cherubini a sostegno proprio della scuola pubblica. La ospito volentieri sul mio blog. La vignetta è invece del mitico Mauro Biani.


«Quando nostra figlia è arrivata all’età della scuola io e mia moglie ne abbiamo parlato e abbiamo deciso: scuola pubblica. Potevamo permetterci di scegliere e abbiamo scelto. Abbiamo pensato che fosse giusto così, per lei. E’ nostra figlia ed è la persona a cui teniamo di più al mondo ma è anche una bimba italiana e l’Italia ha una Scuola Pubblica. Sapevamo di inserirla in una realtà problematica ma era proprio quello il motivo della scelta.
Un luogo pubblico, che fosse di sua proprietà in quanto giovane cittadina, che non fosse gestito come un’azienda e che non basasse i suoi principi su una dottrina religiosa per quanto ogni religione venisse accolta. Un luogo pubblico, di tutti e per tutti, scenario di conquiste e di errori, di piccole miserie e di grandi orizzonti, teatro di diversi saperi e di diverse ignoranze. C’è da imparare anche dalle ignoranze, non solo dai saperi selezionati. La scuola è per tutti, deve essere per tutti, è bello che sia così, è una grande conquista avere una scuola pubblica, specialmente quella dell’obbligo.
Io li ho visti i paesi dove la scuola pubblica è solo una parola, si sta peggio anche se una minoranza esigua sta col sedere al calduccio e impara tre lingue. A che serve sapere tre lingue se non sai come parlare con uno diverso da te ? Il nostro presidente del consiglio dicendo quello che ha detto offende milioni di famiglie e migliaia di persone che all’insegnamento dedicano il loro tempo migliore, con cura, con affetto vero per quei ragazzi.
Tra le persone che conosco e tra i miei parenti ci sono stati e ci sono professori di scuola, maestre, ho una cugina che è insegnante di sostegno in una scuola di provincia. Li sento parlare e non sono dei cinici, fanno il loro lavoro con passione civile tra mille difficoltà e per la maggior parte degli insegnanti della scuola pubblica è così. Perchè offenderli? Perchè demotivarli? Perché usare un termine come “inculcare”? E’ una parola brutta che parla di un mondo che non deve esistere più.
La scuola pubblica non è in competizione con le scuole private, non è la lotta tra Rai e Mediaset o tra due supermercati per conquistarsi uno spettatore o un cliente in più, non mettiamola su questo piano…
La scuola di Stato è quella che si finanzia con le tasse dei cittadini, anche di quelli che non hanno figli e anche di quelli che mandano i figli alla scuola privata, è questo il punto. E’ una conquista, è come l’acqua che ti arriva al rubinetto: poi ognuno può comprarsi l’acqua minerale che preferisce ma guai a chi avvelena l’acqua del rubinetto per vendere più acque minerali. E’ una conquista della civiltà che diventa un diritto nel momento in cui viene sancito. Ma era un diritto di tutti i bambini già prima, solo che andava conquistato, andava affermato. La scuola pubblica va difesa, curata, migliorata.
In quanto idea, e poi proprio in quanto scuola: coi banchi gli insegnanti i ragazzi le lavagne. Bisogna amarla, ed esserne fieri.»
- Lorenzo Cherubini

domenica, marzo 20, 2011

Gotterdammerung

photo by Bigio 2011

Si legge che il crepuscolo degli Dei
stia per incominciare. E' un errore.
Gli inizi sono sempre inconoscibili,
se si accerta qualcosa, quello è già
trafitto dallo spillo.
Il crepuscolo è nato quando l'uomo
si è creduto più degno di una talpa o di un grillo.
L'inferno che si ripete è appena l'anteprova
di una "prima assoluta" da tempo rimandata
perché il regista è occupato, è malato, imbucato
chissà dove e nessuno può sostituirlo.
Eugenio Montale

Girare per i prati a primavera è un ottimo antidoto. Ridimensiona la grandiosità umana. Così oggi giravo e ho pensato: 'sta margherita è molto più rispettosa della creazione di quanto non lo sia un antenna televisiva, o un centro commerciale. La terra se la cava benissimo anche senza gente che si lanci missili tomahawk o centrali atomiche. Insomma non bisogna rinunciare al progresso tecnologico, ma credo che sia davvero progresso solo se include il rispetto, e non opera tramite sfruttamento e degrado. Ulteriori evoluzioni cerebrali ve le risparmio, perché non è che voglio sembrare troppo ambientalista, o cose del genere. La mia era più una riflessione sull'arroganza umana, fiorita per caso mentre leggevo Montale.

Drizzit 23

Questa me l'ha suggerita Marco. Ogni tanto mi capita di disegnare Drizzit mentre sono in Gilda, chiacchierando con gli amici. Un'altra idea era di far parlare l'ingegnere con l'accento tedesco (d'altro canto "uber-orco" è quasi tedesco) ma mi sembrava di calcare troppo la mano.

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sabato, marzo 19, 2011

La nutria

Ieri mentre me ne stavo appostato in un cespuglio nel tentativo di fotografare una rana, ho avuto modo di assistere invece alla nuotata spensierata di una nutria.
Si tratta di topoloni dal muso piatto, simile a quello di un castorino, ma per il resto in tutto e per tutto simili a grossi sorci marroni (sono grandi quanto un gatto) che abitano in ambienti lacustri. In particolare, presso i canneti del lago di Bracciano ve ne sono parecchi esemplari. Però è difficile avvistare una nutria. Proprio come i topi, tendono rapidamente a fuggire e rintanarsi fra i cespugli quando qualcuno si avvicina. Oltretutto questo tipo di animale è a proprio agio in acqua, quindi nel momento in cui sentono appropinquarsi un avventore, in un lampo si gettano nel lago e nuotano via, lontano da sguardi indesiderati.
Insomma io ieri passeggiavo su una sponda malandata del lago (malandata perché piuttosto sporca, in quanto lontana dalle solite "rotte turistiche" e quindi abbandonata a se stessa), dalle parti di Anguillara. Avevo la macchina fotografica in mano perché stavo... fotografando muschio. Ebbene sì, mi piace fotografare il muschio, secondo me ha colori splendidi. D'un tratto mi sono accorto che sulla sponda a pochi passi da me riposavano alcune ranocchie. Purtroppo nel tempo necessario a girare la macchina fotografica, sono saltate tutte in acqua. Un po' deluso mi sono seduto sull'erba, nella speranza che qualcuna tornasse a prendere l'ombra. Sarebbe stato bello scattare una foto a una rana mentre zampilla in aria, pensavo. Invece dopo qualche minuto, quatta quatta, dal canneto è uscita la nutria. Asciutta, col pelo ispido e bruno, come se si fosse appena svegliata (in effetti mi dicono che sono animali prevalentemente notturni). Pochissimi secondi di confidenza ed è corsa in acqua per scappare. Pur avendo la macchinetta pronta, prima che scomparisse nell'acqua ho fatto in tempo a scattare solo un paio di foto. E quella che vedete qui sopra, è quella in cui il topolone si vede meglio.

venerdì, marzo 18, 2011

Drizzit 22

Drizzit entra ufficialmente nel gruppo di avventurieri. Nonostante qualche incomprensione filosofica. Inizia così la nuova settimana di strisce di Drizzit. :)

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mercoledì, marzo 16, 2011

Studenti, 3


STUDENTI
terza parte (qui la prima parte, qui la seconda parte)

Sebbene in una situazione normale non sia certo rassicurante sentirsi dire da uno sconosciuto (oltretutto dall'aspetto tutt'altro che ordinario) che egli è un ladro, questa non era proprio una situazione normale. Cristina emise un sospiro di sollievo e si sedette. Marco e Fabio lasciarono cadere gli zaini a terra e si sentirono in qualche modo tranquillizzati. Un ladro! Un ladro cosa può farti? Al massimo ti ruba qualcosa. Marco pensò al suo cellulare. Un vecchio modello di Nokia scassato che da tempo pensava di sostituire, ma non aveva mai un soldo in tasca. In tasca aveva anche un pacchetto di gomme, gusto spearmint. Fabio il cellulare l'aveva lasciato a casa, nemmeno si ricordava dove. E quando fu costretto a pensarci, d'improvviso si ricordò: era in bagno, sul lavandino. Aveva mandato un messaggio a Marco prima di lavarsi i denti e se l'era scordato lì. Beh meglio nessuno glielo avrebbe fregato. Cristina pensò alla catenina d'argento che portava al collo, e agli orecchini... cose di poco valore ma che quel ladro avrebbe potuto portarsi via. Gli sarebbe dispiaciuto, la catenina era un regalo della cresima. Cristina aveva anche un cellulare, ma non ci teneva poi così tanto. La cosa che le sarebbe davvero dispiaciuto perdere erano tutti gli sms di lei e Marco, quelli che si erano scritti fino a quel momento, la prova provata del loro eterno amore.
«Guardi che noi non abbiamo un soldo.» Affermò a quel punto Fabio. Era vero, almeno per quanto lo riguardava. Altrimenti si sarebbe preso un bel pezzo di pizza appena arrivato alla stazione.
«Ma io non sono quel tipo di ladro. - Spiegò l'uomo. E si poggiò di traverso sul bracciolo del primo sedile alla sua destra. - Lasciate che mi presenti come si deve, prima che sia troppo tardi.»
Inutile dire che quel “prima che sia troppo tardi” suonava malissimo.
«Dicevo, mi chiamo Anacleto, e sono un ladro. Ma non rubo soldi, e nemmeno oggetti di valore. Quello che sottraggo alle persone è una cosa molto più preziosa: il tempo. Il vostro tempo, per la precisione. Perché il mio è finito un sacco di anni fa, e adesso non mi resta che rubarlo agli altri.»
Santo cielo! Pensò Fabio. Aveva visto film horror con una trama più originale. Cos'era questa roba? Una specie di puntata di X-files? Cosa voleva questo tizio, fargli credere che lui era una specie di fantasma e che presto sarebbero invecchiati fino a sgretolarsi in polvere, vittime di un incantesimo demoniaco?
«Senta, guardi che noi non abbiamo tempo da perdere...» Disse il ragazzo, sistemandosi il berretto. Ma si pentì di quello che aveva appena detto, perché in effetti si rese conto che loro di tempo da perdere ne avevano tantissimo. E Anacleto lo interruppe subito.
«Sono io che non ho tempo da perdere, ragazzi. Non vedete quanto invecchio velocemente? Fra qualche minuto i miei capelli saranno tutti grigi, e poi diverranno bianchi. Poi inizierò a camminare curvo, e infine cadrò a terra... morto.»
Marco credette di capire cosa stava succedendo. Per un attimo, solo per un attimo, prestò la propria fiducia a quell'uomo, e finse di credere a tutto questo. Come se stesse accadendo veramente. Un ladro di tempo, uno che ruba il tempo perché non ne ha più. Sarebbe addirittura poetico, se non fosse così grottesco. Ma una volta superata l'incredulità, cominciò a ragionare e disse:
«Quindi adesso ruberai il nostro tempo... e diverrai di nuovo giovane.»
L'uomo scosse il capo, ma non per annuire. I suoi capelli, sempre più lunghi e cesposi, si erano quasi completamente coperti di grigio. Le mani erano divenute ossute, la pelle delle braccia si era seccata e quel poco che si intravedeva del collo si era asciugato.
«Vedete, - disse Anacleto – quando rubo il tempo, lo faccio sempre un po' per volta. Una o due ore al giorno a ogni persona che incontro. Non se ne accorgono nemmeno. Di tempo se ne perde così tanto! ...chi vuoi che si accorga di aver perso un'ora o due incrociando me? Praticamente nemmeno ci fanno caso. Continuano a vivere la loro vita senza badare al tempo che hanno perso. Nessuno mi nota, nessuno si rende conto di quello che perde, e men che mai di glielo sottrae.»
Poi il suo sguardo si fece triste, e chinò la testa.
«Ma oggi mi andava di scambiare quattro chiacchiere con voi. Mi capita di sentirmi molto solo, ed erano anni che non parlavo con nessuno. Vi ho notato dal fondo del vagone mentre travolgevate quella anziana signora, entrando. Era come se non voleste perdere nemmeno un minuto del vostro tempo! Che arroganza! Ebbene sì, vi ho giudicato. Mi dispiace, mi sono sbagliato. Non siete affatto come sembravate. L'ho capito quando ho osservato lei che scriveva sul vetro. Quella che ha scritto non era una grande frase... ma almeno non era di Moccia.»
Calò il silenzio su tutti e quattro i passeggeri. Per qualche minuto restarono quieti ad ascoltare il battito delle ruote del treno sui binari, ritmico, costante, come quello di un cuore. Poi uno stridio metallico, poi un piegarsi di lamiere. Il treno sembrava voler commentare, dire la sua. Ma non disse niente, o perlomeno non aggiunse nulla di utile alla conversazione.
«Sediamoci qui.» Propose Anacleto.
Si sedettero vicini. La chioma di Anacleto iniziava a imbiancarsi, le sue braccia si erano già coperte di macchie e la sua voce si era fatta all'improvviso molto roca. Le mani di Fabio erano talmente sudate che non riusciva a smettere di asciugarle sui pantaloni. Marco era nervoso, così nervoso che quando Cristina gli strinse la mano la trovò tremante. Anacleto inspirò prendendo fiato, e iniziò a parlare.

Dapprima parlò dei suoi genitori, di come si erano conosciti, e amati. Proseguì raccontando della sua nascita. Disse di aver rivisto alcuni vecchi filmini girati in super8 di recente, filmini muti, senza audio, con i colori sbiaditi, filmini in cui era bambino e correva sul prato di fronte a casa. E poi raccontò delle feste di compleanno alle elementari, del peso della cartella alle medie, delle insicurezze di quando era adolescente. Tante figuracce, tanti rimorsi, tanti ripensamenti. Si fermò ad analizzarli uno per uno. Accennò ai suoi primi amori, e spese una mezz'ora intera a parlare della sua prima ragazza. Il cuore schiaffeggiato dagli ormoni che gli gridava di fare il contrario di quello che poi alla fine avrebbe fatto. Passò l'esame di maturità per culo. Crebbe velocemente fino all'università, trascorrendo lunghe serate in casa a studiare (davvero). Narrò di alcuni esami superati in maniera epica e di altri che non avrebbe meritato di passare. Poi di come spendeva i pomeriggi in aula studenti, tra risate e centinaia di fotocopie. Il sabato sera al pub e il mercoledì al cinema (ché costava meno). Disse di aver comprato una casa, e assieme alla casa, di aver ricevuto anche una compagna. Divise in due la propria vita e la rimise insieme molte volte, ma non smise mai di consumarla. Vendette la sua quinta automobile quando divenne troppo miope per guidare, e troppo stanco per fingere di vederci bene. Non ebbe figli ma crebbe quelli dei suoi fratelli. E quando Anacleto cominciò a parlare della propria malattia, Marco, Fabio e Cristina si resero conto che i capelli sulla sua testa, radi e fragili, erano divenuti bianchi come la luce delle lampade al neon accese sopra di lui. La voce di Anacleto si fece flebile e i suoi gesti sembravano più guidati da spasmi che da movimenti volontari. Appoggiò il capo al finestrino, e prima di morire sussurrò questa frase: «La morte si sconta vivendo.»
Il suo corpo scomparve nel nulla un attimo dopo, lasciando i tre ragazzi impietriti. Per dei lunghissimi secondi non ebbero la forza nemmeno di torcere il collo, di guardarsi negli occhi.
«Credo che sia di Ungaretti.» Mormorò Fabio.
«Eh?» Fece Marco.
«Si avvisano i signori passeggeri che il treno è in arrivo alla stazione di termine corsa.» Gracchiò l'altoparlante. Un paio di minuti dopo riconobbero gli edifici del loro paese. Quando la porta si aprì, si resero conto che il treno non aveva fatto nessuna altra fermata a parte quella finale. O forse, semplicemente, non se ne erano accorti.
«Io me ne vado a casa.» Disse Fabio, calcandosi il berretto sulla testa e issando lo zaino in spalla.
«Tu che fai?» Chiese Marco a Cristina.
«In che senso?» Le domandò lei, con la testa ancora immersa in un groviglio di pensieri.
«Vieni a pranzo da me? Non mi hai ancora risposto.»
Cristina annuì. Si allontanarono ognuno per la sua strada, come se non fosse successo nulla. Da qualche parte e in un modo che nessuno di loro può ben comprendere, a quei tre ragazzi è stato rubato del tempo. Ma come tanti altri, non se ne sono accorti. O forse hanno preferito far finta di niente.

fine

Drizzit 21

Ultima striscia della terza "settimana" di Drizzit. Quando ho scritto questa serie di strisce volevo che la striscia finale introducesse in qualche modo i temi della serie successiva. Un po' come nella serie precedente: il gruppo di avventurieri che sono stati protagonisti di questa "settimana" era stato introdotto nella vignetta finale di quella prima. Mi piace questo metodo, mi pare che doni continuità alla storia. E inoltre scrivere la trama di 7 in 7 mi aiuta a mantenere un filo logico, senza che le singole strisce siano sparate là per far ridere e basta.
PS mi hanno fatto notare che sulla U iniziale di Uber-orco ci andavano i due puntini. Ma credo che sia un errore veniale, in fondo non è tedesco, è orchesco. ;)

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martedì, marzo 15, 2011

Studenti, 2


STUDENTI
Seconda parte (prosegue da qui)

«L'ha scritta Lucio Battisti, vero?»
La voce arrivò dall'altro lato della carrozza, quindi tutti e tre i ragazzi si voltarono di scatto. L'uomo che prima sedeva in fondo allo scompartimento leggendo la gazzetta, adesso si era avvicinato e li stava osservando dal sedile appena oltre lo stretto corridoio. Si trattava di un uomo sulla trentina, forse appena quarantenne. La barba e i capelli lunghi e neri impedivano di coglierne bene l'età. Indossava jeans scuciti e una maglietta nera con un qualche disegno sopra, ma le braccia incrociate sul petto coprivano l'immagine.
Cristina ritrasse istantaneamente la mano, nascondendo il pennarello rosso. Forse quel tipo l'aveva vista mentre scriveva sul vetro. Il suo fu un gesto istintivo, spontaneo, che ci permette di asserire con una buona dose di sicurezza che Cristina sia una ragazza responsabile e con un senso del giusto perfettamente sviluppato. Ma solo inconsciamente. Infatti non appena ci pensò sopra, si disse che quel tipo in fondo non era nessuno, che anche se l'avesse sgridata se ne sarebbe fregata e che non erano affari suoi.
«Non l'ho so l'ho letta sul diario di una mia amica.» Ammise.
L'uomo annuì con la testa. Aveva uno sguardo inquietante, come se le scrutasse dentro. Annuendo in quel modo pacato sembrava intendesse: “brava mi stai dicendo la verità”. Cristina diede una botta alla spalla di Marco e si alzò in piedi. Marco la guardò dal basso in alto, chiedendosi che stava succedendo. Fabio invece capì subito, si alzò in piedi anche lui e afferrò lo zaino.
«Dove andate?» Chiese stupidamente Marco.
«Andiamo dagli altri.» Gli rispose freddamente Cristina, cercando poi di scavalcarlo. Quell'uomo le metteva i brividi. Non era davvero il caso di restare neanche solo un minuto in più in quello scompartimento, da soli, assieme a lui. Piuttosto avrebbe preferito viaggiare in piedi in un altro vagone, stracolmo di studenti, come era la norma. E Marco capì. Tutti e tre si allontanarono velocemente e senza dire una parola, scendendo in un attimo la rampa di scale che conduceva allo spazio tra le porte di salita e discesa. L'uomo non si mosse, ma li seguì con lo sguardo finché non scomparvero oltre il bordo della scalinata.
«Secondo me quello era un maniaco!» Sparò Cristina appena scese le scale. Pronunciò quelle parole sussurrando, ma nel tentativo di essere sentita da entrambi i suoi amici fu costretta ad alzare fin troppo la voce. Fabio, che era ancora sulle scale, le intimò di stare zitta portando il dito indice davanti al naso. La ragazza deglutì. Marco la prese sotto braccio, come per tranquillizzarla. Ma non appena si guardò attorno, si rese conto di essere lui a dover essere tranquillizzato.
Il treno era vuoto. Da quel punto era possibile con un'occhiata raggiungere l'altra estremità del vagone attraverso tutto il piano terra, in entrambe le direzioni. Non c'era nessuno. E al piano superiore, da dove erano appena scesi, non c'era nessun altro a parte loro tre e quell'uomo dal fare inquietante. Fuori dai finestrini era possibile scorgere la campagna, strade e case che fuggivano veloci come di norma, anche se difficilmente uno chiunque dei tre ragazzi avrebbe potuto dedurre a che punto del tragitto si trovassero. Il treno correva sussultando di tanto in tanto, emettendo i soliti cigolii, i rumori di sempre. Ma quei rumori erano gli unici che era possibile sentire.

«Dove sono finiti tutti gli altri? Ho visto salire anche Pippo, il Gazzosa e Federica... e c'era un sacco di gente, stavano tutti dietro di noi quando siamo entrati.» Esclamò Marco.
Fabio scese gli ultimi scalini e si rese conto della situazione. Cristina era ammutolita. Tutti e tre si incamminarono lungo il corridoio, fino alla porta che conduceva al vagone successivo. Arrivati lì di fronte, Marco sbirciò oltre le due porte e riconobbe una decina di suoi compagni di classe, ammassati su quattro sedili, assieme a molti altri passeggeri.
Sono tutti qui! Pensò Marco. Sorrise mentre si voltava per rassicurare anche Fabio e Cristina. Ma il sorriso scomparve velocemente dalla sua faccia quando si accorse che la porta non aveva intenzione di farlo passare. Continuò a premere insistentemente il pulsante dell'apertura automatica, ma niente.
«Sarà rotta... come al solito.» Suggerì Fabio, facendosi avanti. Provò anche lui a premere il pulsante ma la porta non reagiva in alcun modo. Oltre quella porta, oltre lo spazio tra i due vagoni e oltre la successiva identica porta, sembrava che tutti stessero trascorrendo il viaggio come al solito. Pippo faceva il deficiente, Federica rideva, altri stavano giocando a tressette su uno zaino rovesciato, e un passeggero leggermente infastidito dal baccano tentava di leggere una rivista. Marco si unì a Fabio nel tentativo di aprire la porta a mano. Entrambi afferrarono la maniglia e la tirarono con tutte le forze, ma la porta era come bloccata. Allora Fabio cominciò a battere sul vetro per richiamare l'attenzione degli altri. Anche Marco iniziò a gridare. Chiamarono i loro compagni di scuola uno dopo l'altro, ma nessuno sembrava sentirli. Il rumore tra i due vagoni, le porte chiuse, forse non era così strano che non si accorgessero di niente.
«Proviamo dall'altra parte del vagone, - suggerì Cristina – magari di là è aperto.»
Ma quando si voltarono, si trovarono di fronte quell'uomo.
Era in piedi, in mezzo al corridoio. Non teneva più le braccia incrociate, e sul petto sopra l'immagine di un morto vivente verdognolo si poteva leggere la scritta IRON MAIDEN. Inquietante e pure metallaro. Qualcosa era cambiato in lui. Barba e capelli sembravano più lunghi, a malapena si riusciva adesso a scorgere il suo sguardo e il naso. Non solo, adesso che era illuminato di fronte dalle lampade al neon, era chiaro che si trattava di un quarantenne, anche piuttosto attempato. Dal folto di quella zazzera spuntavano diversi capelli bianchi, che scivolavano ai lati della testa striando di chiaro la folta chioma nera. Cristina indietreggiò.
«Non potete andare via.» Disse l'uomo. Loro rimasero in silenzio, così lui riprese a parlare.
«Mi chiamo Anacleto, e sono un ladro.» Aggiunse.
(continua)

Drizzit 20

Non so se questa striscia aiuti meglio a comprendere la psicologia di Dotto, o quella di Katy Brie. In ogni caso, mi piace la dinamica di queste tre vignette, tanto che ho voluto ridisegnare la posizione di Dotto in tutte e tre, senza usare il solito copia+incolla.
A proposito oggi è il mio compleanno. Non avrei dovuto pubblicare Drizzit, prendetelo come una sorta di regalo di compleanno, ma al contrario. :)

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lunedì, marzo 14, 2011

Studenti, 1


Ho partecipato al concorso "I Giovani e il Territorio" III edizione, organizzato dalla consulta giovanile del comune di Bracciano, quest'anno il tema era "i giovani popolo di pendolari". Ho scritto un racconto e scattato alcune foto. Ho deciso di postare il racconto qui, diviso in alcune parti (è lunghetto per una sola entrata del blog). Le foto sono quelle che ho scattato per il concorso, e i protagonisti sono Marco e Melania. Non tutte sono state poi spedite, quindi mi sembrava giusto pubblicare sul mio blog in ogni caso quelle più belle.

STUDENTI
prima parte

Non appena le porte del TAF si aprirono, accompagnate da un sibilo faticoso, tre ragazzi saltarono nel vagone travolgendo la signora Anna. L'anziana signora, proprietaria del negozio di tabacchi sulla via principale del paese, fece appena in tempo a tirare verso di sé l'ingombrante borsa di pelle che portava a tracolla. Si fece sfuggire un paio di gridolini di spavento, che mutarono velocemente in borbottii di disapprovazione, quindi si aggiustò il vestito leopardato e affrontò con tutta l'eleganza di cui poteva essere capace il gradino che la separava dal marciapiede del binario due. Appena toccò terra si rese conto di essere circondata da decine e decine di altri studenti che, al contrario dei maleducati appena incrociati, stavano attendendo con evidente impazienza che i passeggeri scendessero. Velocemente si tolse di mezzo. La torma di adolescenti non esitò un secondo di più e si riversò con foga all'interno della carrozza.
Solo a quel punto la signora Anna si rese conto di aver già visto i tre ragazzi che avevano rischiato di farla caracollare davanti alla porta. In effetti si rese conto che li conosceva bene. Si chiamavano Marco, Cristina e Fabio. E l'opinione della signora Anna nei loro riguardi non era granché lusinghiera.

Cominciamo con Marco. Marco era uno di quei ragazzi che la proprietaria di una tabaccheria deve tenere sempre d'occhio. Aveva un visino pulito, era educato e i suoi occhi azzurri ispiravano velocemente simpatia. Poi quando meno te lo aspettavi, ti inculava le Vigorsol dall'espositore. La signora Anna se n'era accorta, una volta, ma siccome c'erano altri clienti da servire aveva lasciato correre (glielo avrebbe detto la volta successiva, si ripromise). Purtroppo una volta successiva non c'era più stata, perché da quel giorno in poi Marco non si era fatto più vedere in quella tabaccheria. Forse aveva mangiato la foglia, forse si era accorto che la signora Anna l'aveva visto rubare quel pacchetto di gomme gusto spearmint. Oppure semplicemente aveva avuto altro da fare. Ad esempio, pomiciare con Cristina.
Sì perché non è che un ragazzo di sedici anni entra in un negozio di tabacchi e si frega un pacchetto di Vigorsol senza un motivo preciso. Il motivo preciso era che se hai sedici anni e nel pomeriggio devi vedere la ragazza per la quale hai una cotta devastante, allora hai davvero bisogno di una gomma da masticare gusto spearmint. E non c'è personale crisi economica che tenga.
Quello stesso pomeriggio Marco varcò l'ingresso dei giardini pubblici comunali con la sicurezza di uno che non doveva temere di aver mangiato pollo al forno con le patate a pranzo. Tutto questo grazie alle gomme alla spearmint appena fregate alla signora Anna. Cristina accolse con gioia l'arrivo del suo compagno di classe, e nel giro di poche ore i due coetanei erano intenti a premersi vicendevolmente le labbra sulle labbra in un angolino appartato del parco (l'avrebbero fatto anche se Marco non avesse compiuto quel taccheggio? ...chissà).
La signora Anna conosceva anche Cristina, almeno di vista. La ragazza non passava inosservata giacché aveva tinto i propri capelli di un rosso tanto acceso che in confronto quelli della signora Anna sembravano appassiti con l'arrivo dell'autunno. E poi c'era quella lucertolina tatuata su di un lato del collo. E quell'orecchino sul naso. Insomma sono dettagli che non ti scordi, soprattutto se sei una di quelle signore come era la signora anna, con la collana di perle, il vestito leopardato, e la permanente finto anticato sulla chioma rada. Cristina e la signora Anna rappresentavano insieme la crasi dell'intero discorso sul conflitto generazionale.
«Due pacchetti di Kim ultraslim superleggere.» Chiedeva sempre Cristina, quando era il suo turno davanti al bancone della tabaccheria. La signora Anna si era sempre chiesta se le fumasse lei oppure se fossero per sua madre, ma non glielo aveva mai chiesto. E questo è tutto quello che la signora Anna sapeva di Cristina.
Infine c'era Fabio. Fabio era alto, molto alto per un ragazzo della sua età. Il volto devastato dall'acne non riusciva a nascondere che fosse un bel giovanotto. Indossava sempre un berretto girato sulla testa, che impediva ai lunghi capelli neri di calargli sulla fronte. Fabio passava ogni settimana in tabaccheria dalla signora Anna a comprare le vigorsol. Lui le comprava, sì, non le fregava. Ma nonostante le Vigorsol, non c'era nessuna sua coetanea che avesse intenzione di pomiciare con lui. Le ragazze preferiscono chi le Vigorsol le frega.
Ora dimentichiamoci della signora Anna e della sua tabaccheria. Davvero. Perché i protagonisti della storia sono Marco, Fabio e Cristina. Mentre la signora Anna tornava a casa, Marco e Cristina, sul treno, stavano cercando due posti vicini. Salirono le scale e si mossero lesti attraverso lo stretto corridoio del piano alto della carrozza. A quell'ora il treno si riempiva velocemente, caricando ad ogni fermata sempre più studenti, fino a colmarsi del tutto. Ma quel giorno furono fortunati (così pensarono), perché trovarono una intero compartimento del vagone completamente libero. Scostarono un giornale spiegazzato abbandonato sul sedile, e Cristina prima di sedersi controllò che non vi fossero gomme americane appiccicate sulla stoffa. Ovviamente Marco si sedette di fianco a Cristina, mentre Fabio lanciò il suo zaino Invicta su uno dei posti di fronte a loro.
«Ma che sono posti riservati?» Chiese Fabio guardandosi attorno. In effetti, un intero scompartimento deserto era sospetto. C'era solo un altro posto occupato, poco più in là, da un signore intento a leggere la gazzetta dello sport.
«Riservati da chi? Ma che cavolo dici...» Gli rispose Cristina prendendolo in giro. Poi si appiccicò alla bocca di Marco come una calamita allo sportello del frigo.
«Boh non lo so, magari dal capostazione... cioè il treno è pieno e quassù non ci sale nessuno.» Continuò Fabio, mentre si aggiustava i pantaloni. Poi si sedette anche lui, cercando di non inciampare sulle gambe dei suoi amici.
«Si vede che sono tutti deficienti. - Gli rispose Marco, non appena riprese fiato. - Di sicuro non sono posti riservati, mica è un eurostar, questo è un TAF di merda.»
Risero tutti di gusto. Poi il treno si mosse. Un primo scossone, poi un secondo meno violento, e quel bruco di metallo riprese a trascinarsi sui binari. Ci sarebbero voluti cinquanta interminabili minuti per arrivare a casa. Considerando che il paese dove abitavano Marco, Fabio e Cristina si trovava a poco più di 40 chilometri da lì, questo significava una media di meno di 50 chilometri all'ora. Roba da far west. E arrivati alla stazione poi avrebbero dovuto raggiungere casa. Fabio che abitava in periferia avrebbe dovuto camminare ancora per una mezz'ora buona, oppure perdere un altra ora ad aspettare il bus locale. Inoltre ogni giorno, per arrivare dalla scuola alla fermata del treno (e viceversa) occorreva prendere la metropolitana. In totale facevano quasi due ore di viaggio. Due volte al giorno. Quattro ore di su e giù quotidiano. Perciò ci si alzava alle sei del mattino, e si pranzava alle tre del pomeriggio. Marco sentiva lo stomaco agitarsi nella spasmodica attesa di quell'etto e mezzo di pasta che suo padre gli avrebbe fatto trovare, appena tornato a casa.
«Volete venire a pranzo a casa mia?» Domandò caricandosi sulle ginocchia le gambe di Cristina.
«No, non posso. Oggi pomeriggio ho gli allenamenti e poi domani mi interroga quella stronza di matematica.» Rispose Fabio, ciondolando con la testa. Quella stronza di matematica. Questa è una figura retorica pensò subito dopo. Ma non mi ricordo quale.
«Oggi c'è mio padre a casa. Basta che gli faccio uno squillo e non c'è problema. Poi quando hai mangiato te ne vai... anzi se vuoi ti do uno strappo con lo scooter.» Insistette l'amico. Fabio era sul punto di accettare ma la sua curiosità prese il sopravvento e prima che potesse accettare l'invito si ritrovò a domandare: «Scusa ma come mai tuo padre è a casa? Non lavora oggi?»
«No oggi è solidarietà.»
«E che cazzo vuol dire?» Gli fece Cristina, mentre cercava qualcosa nel proprio zaino.
«Che sta a casa e il suo stipendio di oggi lo danno a qualcun altro, che invece doveva essere licenziato. Una cosa del genere, me l'ha spiegata ma non lo stavo ad ascoltare.»
«Mi sembra una cazzata.» Commentò Fabio.
«Oh però è così. Si chiama solidarietà. Lui sta a casa qualche giorno al mese, tipo ferie non pagate, e così non licenziano nessuno. Altrimenti licenziano qualcuno.» Ribadì Marco.
«Mi sembra una cazzata.» Ripeté Fabio.
«Vabbé comunque sticazzi, ci venite a pranzo o no?»
«No io vado a casa.» Disse Fabio.
Cristina invece non rispose, era distratta. Aveva tirato fuori dallo zaino un pennarello rosso indelebile e stava scarabocchiando sul vetro del finestrino. Il vetro era per metà oscurato da un graffito, che all'esterno del vagone riproduceva la scritta CRAZY TIMES composta da caratteri tanto deformi da risultare quasi indecifrabili. Il graffito occupava l'intero vagone in lunghezza, e la punta della zeta finiva per coprire parte del vetro sul quale Cristina stava vergando sognanti frasi d'amore. Ovviamente la ragazza aveva scelto una parte del vetro lontana dal graffito, e anche da quell'enorme pene stilizzato che qualcuno aveva dipinto con un pennello nell'angolo in alto a sinistra della finestra, proprio sotto la tendina.
«Che stai scrivendo?» Le chiese Marco, piegandosi un poco in avanti.
Lei le diede un rapido bacio in testa, e ancora più rapidamente rimise il tappuccio al pennarello.
«L'amore è un gesto pazzo, è come rompere una noce con il mento sopra al cuore!» Lo lesse ad alta voce cercando il più possibile di interpretarne la poeticità.
«Ma chi l'ha scritta 'sta stronzata?» Disse Marco, e scoppiò subito a ridere. Anche Cristina rise, e iniziarono a prendersi amichevolmente a pugni. Una cosa che gli amanti hanno in comune con i canguri.
(continua)

Drizzit 19

Ho pensato che l'occasione migliore per far conoscere Drizzit e il nano Dotto potesse essere un turno di guardia notturna. Di questa striscia mi piace soprattutto il tempismo. Il lettore scorre con lo sguardo le vignette, da sinistra a destra, aspettandosi una battuta finale... che non c'è. L'espressione impassibile con la quale il nano ha fissato Drizzit per l'intera notte mi sembrava sufficiente. E poi mi sono divertito a disegnare le ombre che si spostavano man mano con la luna.

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sabato, marzo 12, 2011

Drizzit 18

Mi piace l'idea che Drizzit sia in qualche modo a disagio con le ragazze. Mi sembra coerente con il suo passato. A proposito di Drizzit: adesso ha una pagina su Facebook. Potete cliccare sul riquadro qui a sinistra e diventare fan. Così quando raggiungeremo i 100.000 fan, gli elfi scuri domineranno il mondo.

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venerdì, marzo 11, 2011

Balena



So bene come sembri stupido il mio tempo
A chi come te misura le cose a sorrisi
Non sono il saltimbanco
Non so ingoiare spade
Ho tanti libri appena aperti Da finire se vuoi
Da finire se vuoi

Portami con te
Fuori dal ventre di balena
Un mobile svizzero
Un foglio e una penna

Sono in vena di partire davvero
Sono in vena di partire davvero
Di partire davvero

So bene come sembri stupido il mio tempo
So bene come sembri stupido il mio tempo
So bene come sembri stupido il mio tempo
So bene come sembri stupido il mio tempo


Avevo già dedicato un post agli elettrojoyce un po' di tempo fa. E' un gruppo che non c'è più. Questa piccola canzone non è tra le mie preferite, ma il testo è molto più poetico di tante altre.

So che molte persone misurano il tempo a sorrisi. Se non ti diverti, è tempo perso. Ecco io sono altrove, ma proprio spazio-temporalmente. Intendiamoci, io credo di essere una persona con cui si passa bene il tempo. Ma credo anche che il valore di ciò che facciamo non sia minimamente collegato al divertimento. Penso che esista un tempo in cui svagarsi sia necessario, addirittura costruttivo, e un tempo in cui c'è bisogno di fermarsi e progettare qualcosa di solido su cui appoggiare se stessi... perché se domani sarò migliore, o starò meglio, non sarà grazie al sommarsi delle ore che ho trascorso a non pensarci.
Non sono noioso, non sono pesante, anzi tutti mi dicono il contrario (faccio bene a crederci?). Ma sono stanco di compromessi. Mi ritrovo a doverli stringere ogni giorno, per poter essere accettato, considerato, voluto bene, amato. No basta, io sono così... io penso, e non ci tengo ad apparire superficiale o cretino, non ci tengo ad abbassare il livello dei discorsi, a rendere semplici le cose... a renderle ancora più semplici di quello che sono.

Ho davvero tanti libri aperti e tanta voglia di partire.
Il mio foglio e la mia penna non me li toglierà mai nessuno.

giovedì, marzo 10, 2011

Drizzit 17

Eheh ok... non fatevi un'idea sbagliata. :)

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mercoledì, marzo 09, 2011

Sonetto XXV

Let those who are in favour with their stars
of public honour and proud titles boast,
whilst I whom fortune of such triumph bars
unlook'd for joy in that I honour most;

Great princes' favourites their leaves spread,
but as the marigold at the sun's eye,
and in themselves their pride lies buried,
for at a town they in their glory die.

The painful warrior famoused for might,
after a thousand victories one foil'd,
is from the book of honour razed quite,
and all the rest forgot for which he toil'd.

Then happy I that love and I'm beloved
where I may not remove, nor be removed.


- William Shakespeare

Ecco, io questo sonetto l'ho tradotto (anche se non so quanto posso essere stato all'altezza). Mi piaceva la frase finale, e traducendolo ho scoperto anche la bellezza delle tre quartine precedenti. Tradotto, fa più o meno così:

Lascia che quelli che sono nel favore delle loro stelle
si vantino dell'onore pubblico e dei titoli superbi,
mentre io, che la fortuna ha escluso da certi traguardi,
sia felice in disparte per quello che più ritengo prezioso;

I favoriti dei principi si prendono cura dei loro petali,
ma come le calendule rivolte allo sguardo del sole,
e dentro di loro il loro orgoglio viene sepolto,
per un attimo di tristezza muoiono nella loro gloria.

Il guerriero dolorante famoso per la sua tempra,
dopo mille battaglie alla fine viene vinto,
ed è presto cancellato dal libro dell'onore,
e tutti quanti dimenticano per cosa ha combattuto.

E dunque che io sia felice di amare e essere amato
da chi non posso cancellare, e da chi non può cancellarmi.

Ci sono persone che non si perdono mai, e credo che del loro amore possiamo essere felici, e stare bene per questo per tutta la vita.

Drizzit 16

Poiché questa terza settimana di Drizzit doveva essere incentrata sulla presentazione del nuovo gruppo di avventurieri, ho pensato che non sarebbe stato male dedicare un paio di strisce ad ogni personaggio. Wally, il personaggio protagonista della striscia qui sopra, è la parodia del barbaro Wulfgar, ma in realtà si ispira molto di più al Kronk de Le follie dell'Imperatore della Disney, sia nei lineamenti che nella personalità. La striscia precedente e questa sono sufficienti per comprendere appieno il tipo di personaggio. :)

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martedì, marzo 08, 2011

Question #8

Il lato buono (delle cose)

Se ti sembra che ciò che ti circonda,
alla fine, con te, non c'entri poi un granché...
Se ti gira la noia del mondo
e per restare sveglio hai bisogno di mille caffé...

Devi sapere che nel mondo c'è
qualcuno che la pensa esattamente come te.

Se avessi qualcosa da dire
a chi fa il gioco del potere,
a chi dice che sbagli sempre tu,
perché non sei competitivo,
non fai gli straordinari per comprarti il BMW...

Devi sapere che nel mondo qualcuno è già cambiato,
trattando gli altri come vuole essere trattato,
capendo che aiutare è molto meglio che essere aiutato,
e ci sta molto più futuro nel futuro che passato nel passato!

Levandosi di torno quelle pubblicità
che ci avvelenano ogni giorno,
cercando il lato buono delle cose,
il lato buono delle cose!

Il lato buono (delle cose) di Pura Utopia, PIMS studios (2004)
Il loro sito ufficiale è questo, ma se seguite il link sopra potete ascoltare qualche loro canzone, compresa quella il cui testo è riportato sopra.

lunedì, marzo 07, 2011

Drizzit 15

Ok adesso sto giocando un po' con gli stereotipi. Forse qualche volta va bene così, diciamo che sto posticipando le battute con rimandi a Schopenhauer ...(ovviamente scherzo! ...ma chissà se riuscirei a infilare Shopy dentro Drizzit e cosa ne verrebbe fuori... mmh mmh).

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Question #7

Tante volte mi sembra che la gentilezza, lo stare vicino alle persone, il volersi preoccupare per qualcuno, il cercare di capire gli altri, il desiderare che le persone che ci stanno a cuore stiano meglio... ecco mi sembra che tutto questo sia considerato "volontariato". Se lo fai, ti considerano bravo. Ma anche scemo, perché il mondo è governato dall'egoismo (così dicono tutti).

domenica, marzo 06, 2011

Question #6

Sei motivi per essere felice


Viola aveva sei (6) buoni motivi per essere felice.
Il primo lo lasciò a scuola. Nella sua classe, c'era un amico che seppe starle vicino, vicino come non aveva mai fatto nessuno. Si chiamava Davide. Parlavano poco, sapevano l'uno dell'altra solo quel che era necessario. Agli occhi di lei, lui era diverso. Come se tutto fosse colorato con sgraziati colori opachi, e lui con morbidi tratti di pastello. Davide attraversava il tempo del liceo con la stessa sicurezza con cui un dito disegna sulla sabbia. Non aveva nemmeno bisogno di essere bravo. Non era mai preoccupato, non era ansioso, non l'aveva mai visto agitato. La sua presenza confortava Viola, la racchiudeva in una piccola bolla di sapone, la proteggeva dalla tristezza. Sedettero vicini tutte le volte che poterono, finché il tempo dei dubbi e delle parole non dette si trasformò in quello delle assenze e delle mancanze. Davide venne a scuola sempre di meno, sempre di meno. Qualcuno le disse che aveva trovato un lavoro, una ragazza. Viola dimenticò di che luce brillavano i suoi occhi. Quando la scuola finì, non lo vide né sentì mai più.

Quindi le restarono cinque (5) buoni motivi per essere felice.
Viola aveva un sogno, avrebbe voluto scrivere. Le riusciva così naturale, come tessere per un baco, o costruire nidi di piccoli rami per una rondine. Incastrava le parole facilmente. Esauriva decine di penne biro ogni anno colmando risme di carta con parole severamente bilanciate. E poi Viola aveva un altro dono, ancora più importante: sapeva raccontare quello che vedeva. Bambini che giocavano con i sassi nel parco, signore anziane che tenevano conto di quello che non c'era più, gatti che si rincorrevano all'inizio della primavera, cori che le cime degli alberi alzavano al freddo vento d'autunno. Erano racconti che ridavano luce alla vita. Pagine e pagine che scaldavano il cuore. I fogli riempirono inesorabilmente i cassetti. Finché non le regalarono un computer, un piccolo splendido computer portatile. Glielo regalò Federico, il giorno del loro terzo anniversario. Nemmeno lei saprebbe spiegare perché. Il senso del dono era l'opposto di quello che significava per tutti. Viola decise che le sue dita non si sarebbero mai più macchiate di inchiostro. Si dimenticò del proprio suo sogno, per le labbra di Federico.

Ma aveva ancora quattro (4) buoni motivi per essere felice.
Pensava di averne perso un altro quando sua madre fu ricoverata, e scoprirono che non poteva guarire. Ma non lo perse in quel momento. Perché le persone che ci lasciano non si riprendono quello che ci hanno dato. Viola poteva stringere ancora ogni pensiero, parole e immagine che sua madre le aveva donato. Così decise che dentro di sé avrebbe conservato ogni cosa. Quel quarto motivo lo perse qualche anno dopo, quando decise di non laurearsi e di sposare Federico. Perché se c'era una cosa che la madre le aveva insegnato, era che essere sereni non vale essere felici. Le diceva sempre: tutti i sogni che non ho raggiunto io, realizzali tu per me. Viola non la comprese, oppure preferì l'esempio alle parole. Tolse qualcosa da dentro di sé e la allontanò. Assieme alle parole della madre, se ne andò il quarto motivo. Viola accettò il compromesso. Una vita di gioie programmate, di giorni collaudati, di risvegli e di serate che si accodano sul calendario finché non diventano esistenza. Viola sarebbe stata come tante altre, mescolata tra le altre, tranquilla come le altre, invisibile come ogni altra vita invisibile che scorreva serena accanto a lei.

A quel punto a Viola restavano altri tre (3) buoni motivi per essere felice.
Di certo Mattia, suo figlio, prese il posto di tutti quelli che aveva perso fino ad ora. Viola si fece forte. Si convinse che il proprio sacrificio aveva dato i frutti sperati. Divenne testarda e orgogliosa delle proprie scelte, lo fece per difendere se stessa dalle mille insicurezze che ogni giorno la inquisivano. Le restavano tre buoni motivi per essere felice, e in cambio aveva ottenuto una famiglia, un bellissimo bambino, e un marito che la amava. Qualcuno che la abbracciava la sera quando stanca si gettava tra le lenzuola, e che la ascoltava parlare di libri e di storia quando non aveva più forza per leggere ancora. Ma nella freddezza del quotidiano, Viola perse l'ennesimo motivo. Quelle vite che scorrevano invisibili, erano disseminate di giorni immensamente tristi, come è normale che sia. Un caro amico che muore, un lavoro che non premia adeguatamente, un incidente domestico, un amaro litigio. Non c'erano giorni migliori a compensare quelli peggiori. Nei giorni che si facevano uguali, nel calendario scandito dalle ferie di Federico, e dagli anni scolastici di Mattia, che fosse un giorno come tanti era la massima aspirazione. Viola provò a cercare quel che aveva perso nella cerimonia dei regali a Natale, e nelle gite in montagna di inverno. Ma non trovò nulla. Quanti anni erano trascorsi? Da quanto tempo aveva perso quel motivo?

Rimase con due (2) buoni motivi per essere felice.
Mattia era lontano, studiava all'estero e forse lontano avrebbe realizzato il suo sogno. Nelle mail che spediva e che sua madre di tanto in tanto leggeva, era facile riconoscere il rituale dovere di un figlio che era in grado di proseguire il suo cammino da solo. Di lì a poco, Viola conobbe un altro uomo, Elia. Tutte le sere che la cena di Federico era nel frigo pronta da scaldare, Viola ritrovò il calore di un amore che credeva di aver perso per sempre. Elia era come Davide, il suo compagno di classe del liceo: sapeva avvolgerla in una nuvola di sicurezze dalla quale Viola non avrebbe mai voluto uscire. Con Elia stava bene, Elia l'amava, era buono, non le avrebbe mai fatto del male. Elia era disposto a vederla quando e quanto voleva lei, nel modo che lei desiderava, e non le chiedeva nulla in cambio di quelle ore. Poi un giorno Federico lasciò Viola. Non perché si accorse di Elia, Viola non avrebbe mai permesso che ciò accadesse. Federico lasciò Viola perché non provava più niente per lei. Più niente per lei, e frantumò così il penultimo motivo di Viola. Più niente per lei.

Ecco che ora Viola stringeva fra le dita (1) un solo buon motivo per essere felice.
Ma lo distrusse. Lo distrusse di sua propria volontà. Ripensò a quanti motivi di felicità aveva speso per arrivare fin qui, e a quanto poco le rimaneva. Musica che non avrebbe mai più ascoltato. Doveva essere colpa di qualcosa o di qualcuno. Si convinse di aver sbagliato, di aver fatto scelte stupide, di non aver capito niente. Raccolse l'ultimo motivo di felicità che le era rimasto, e lo scagliò con forza contro Elia. Lui lo vide spezzarsi davanti a sé, tra le lacrime di Viola. Ma non andò via, lui rimase. Rimase per vederla proseguire in quell'intento, testarda e disperata, di seccare giorno dopo giorno, assiduamente, ogni piccola goccia che restava del loro amore. Viola lacerò la sua voglia di parlarle, gli impedì di starle vicino, lo spinse lontano sollevando fra loro mura di dolore, silenzio, stanchezza e impegni. Non volle ascoltarlo mentre cercava di gridarle quanto avrebbe desiderato, magari in un altro mondo, trovarsi al posto di Federico, e non farla soffrire, e non farla piangere. Elia scivolò lontano, portando via con sé le minuscole brillanti schegge dell'ultimo buon motivo che aveva Viola per essere felice.

E adesso Viola non ha più nessun motivo per essere felice.
Ma è serena.

sabato, marzo 05, 2011

Drizzit 14

Questa è l'ultima striscia della seconda settimana di Drizzit (le scrivo in serie di 7 episodi, in modo da dividere la fase di scrittura da quella di disegno). La seconda settimana di Drizzit si conclude con l'introduzione di un gruppetto molto variopinto di personaggi. Come ho già scritto la scorsa volta, si presenteranno più avanti, comunque non dovrebbe essere difficile per chi ha letto i romanzi ai quali mi ispiro, capire di chi sono le parodie. :)

Striscia precedente; Striscia successivaLeggi Drizzit dall'inizio