Questo mio racconto risale al 2001, quando ero iscritto alla facoltà di scienze matematiche fisiche e naturali dell'università della Tuscia, e nella vicina facoltà di lingue e letterature straniere moderne fu indetto un concorso di scrittura. Partecipai e arrivai primo. Non ho mai pubblicato questo racconto sul mio blog, ma lo si trova online se lo si cerca (sul sito dell'università della Tuscia, mi pare). Ci ho ripensato perché, come mi ero già detto altre volte, non vale la pena lasciare i propri racconti a marcire in un cassetto. Preferisco condividerli con chiunque voglia leggerli. Quindi buona lettura.
La targa sulla porta diceva chiaro:
“Dott. Martin Clavell - Critico d'arte - Specialista in Arte Genetica. «Prego, sedetevi.» li invitò subito il dottor Clavell.
I due si sedettero. Prima lui e poi lei.
«Allora voi siete i coniugi Pakowsky. Sono molto lieto.»
Si sporse oltre la scrivania di legno allungando la mano.
«Molto piacere dottor Clavell. Io sono Adam e questa è mia moglie Loise.» Adam strinse la mano al dottor Clavell. Loise si limitò a salutarlo con un cenno della testa. Il dottore le lanciò un primo sguardo. Poi, mentre tornava a sedersi, la osservò di nuovo, velocemente. La donna aveva lunghe gambe, modellate perfettamente, con delle ginocchia decise ed una caviglia sottile. Le valorizzava indossando una minigonna molto audace ed un paio di scarpe molto costose. Lei si accorse di essere osservata, ma non disse nulla.
«Mia moglie è un Vautrine dell'ultimo periodo.» si affrettò a dire Adam.
Il dottor Clavell si sentì in diritto di osservarla più liberamente, ma dopo pochi secondi si era già fatto un'idea sul tipo di donna. Aprì una cartellina virtuale, che aveva preparato in precedenza e lasciato sospesa sul monitor olografico davanti a sé. L'enorme vetrata alle spalle del dottore dava sul quartiere del porto, ma da lì, dal ventunesimo piano, era molto più bello che visto dall'interno delle sue vie. Il dottor Clavell cominciò a leggere in silenzio alcuni fogli, poi sfiorò i sensori del computer, ed iniziò a cercare qualcosa. Mentre cercava, formulò una domanda:
«Che cosa vi ha spinto ad avere un figlio?»
Non staccò gli occhi dai fogli traslucidi proiettati di fronte sé, anzi si aggiustò con un dito gli occhiali.
«Beh, dottor Clavell...» iniziò Adam.
«Mi chiami Martin, la prego.»
«Sì... Beh... Io e mia moglie siamo sposati da ormai quattro anni. Abbiamo molto tempo libero, e pensiamo che un figlio sia anche qualcosa di speciale... Qualcosa che ci lega...»
Avrebbe voluto continuare, ma il dottor Clavell, con un gesto rapido della mano, spense il proiettore olografico.
«Ho controllato la scheda di sua moglie. E' un'autentica Vautrine del '67. Il periodo dei fianchi, se non sbaglio.»
«Esatto, si. Vautrine creò circa un centinaio di esemplari in quel periodo, in Spagna.»
«Beh, signora Pakowsky, non avevo mai avuto il privilegio di ammirare un Vautrine, prima d'ora, ma devo dire che lei vale tutta la fama che quell'artista ha saputo guadagnarsi.»
La signora Pakowsky sorrise.
«Grazie.» disse.
«Ma anche lei non è da meno, Adam. Posso chiamarla Adam, vero?»
Anche il signor Pakowsky allargò un sorriso. Annuì una volta sola.
«De Rosi, mi pare.»
«Sì, De Rosi del 2061. Conosce l'autore?»
«I genartisti italiani sono i miei preferiti. – disse Clavell alzandosi dalla poltroncina e passeggiando lentamente verso la sua pianta da ufficio. – Purtroppo nell'ultimo decennio sono stati i tedeschi a dettare le regole, e solo l'arte genetica francese ha saputo reggere il confronto. Ciò nonostante continuo ad apprezzare moltissimo i lavori del resto dell'Europa. Per mio figlio mi sono affidato ad un fiorentino, un certo Claudio Calvino. Ne avete sentito parlare?»
Adam scosse leggermente la testa, poi poggiò la schiena alla sedia. Clavell accarezzò con una mano qualche foglia della pianta, come per saggiarne l'evidente buona salute. Dietro di lui il cielo luminoso cominciava a scurirsi.
«Scusatemi, stavo divagando. Per rompere un po' il ghiaccio.»
«Noi invece siamo preoccupati, e vorremmo che lei giungesse presto al punto.» sputò fuori con fermezza la signora Pakowsky. Adam stese la mano verso di lei per farle segno di stare calma. Lei, senza badare al marito, afferrò la sua borsetta e tirò fuori un pacchetto di sigarette.
«Loise, magari al dottor Clavell dà fastidio...»
«No, non si preoccupi, signor Pakowsky. Non ho problemi col fumo.»
Clavell si affrettò a raggiungere nuovamente la sua poltroncina. Alle sue spalle, qualche luce della città già s'accendeva. Si sedette e riprese in mano i fogli che aveva già estratto dalla cartellina.
«C'è qualche problema, dottor Clavell?» chiese Adam. Il suo tono era calmo ed interrogativo, non sembrava veramente preoccupato. Non avevano minimamente idea del perché si trovavano qui, pensò Clavell, e questo era ovvio.
«Circa un mese fa, più precisamente il 14 di Gennaio, io stesso vi contattai per via di vostro figlio.»
Fece una pausa. I Pakowsky restarono in silenzio. «Il piccolo era nato e non aveva problemi di sorta, godeva di ottima salute ed il suo aspetto era stupendo. Fin troppo. Mi trovavo in quell'ospedale per assistere alla nascita di un'opera del maestro Kadowaki, un genartista giapponese che sta conquistando sempre più pubblico, ultimamente. E notai il vostro... Com'é che si chiama?»
«Isaac.» rispose Loise.
«Isaac, giusto. Vi contattai il giorno dopo per chiedervi il permesso di esaminare meglio il piccolo Isaac. Lo ottenni, ed il giorno stesso, con un paio di assistenti, ci apprestammo a valutare vostro figlio.»
I coniugi Pakowsky si guardarono fra loro per un attimo.
«Dottor Clavell...» iniziò Loise.
«L'invito a chiamarmi Martin vale anche per lei, signora Pakowsky.» la interruppe il dottore.
«Mio figlio non è un'opera. E' naturale. Come può essere valutato?»
Adam arricciò le sopracciglia e si fece avanti, appoggiando i gomiti sui braccioli della sedia ed intrecciando le dita. Il dottor Clavell abbassò le carte che aveva in mano, e tirò un sospiro. Si aggiustò gli occhiali, e rispose con pacata lentezza, in modo da essere estremamente chiaro:
«E' vero. Vostro figlio non è un opera. Ma possiamo valutarlo come se lo fosse.»
Adam restò in silenzio. Anche Loise restò in silenzio. Tirò un ampia boccata dalla sua sigaretta. Poi la spense, schiacciandola nel portacenere di giada del dottore. Solo allora tirò fuori il fumo.
«Quella che ci sta proponendo è una truffa.»
«E' vero, signora Pakowsky. Ma non completamente.»
«Cosa vuol dire?»
«Che se ho notato vostro figlio tra molti e vi ho contattato, è perché so che la cosa funzionerà. Vostro figlio è la prova del fatto che, nonostante oltre sessant'anni di arte genetica, madre natura è ancora l'artista migliore. Forse voi non vi siete soffermati troppo sulle caratteristiche di vostro figlio, e probabilmente, se non l'avessi notato io, non l'avrebbe fatto nessuno. Ma io e la mia équipe siamo usciti estasiati dall'incontro con quella piccola creatura. Guardi, ho qui pronta una bozza della recensione.»
Estrasse un fascicolo da un cassetto e lo allungò al signor Pakowsky. Era cartaceo, non se ne vedeva più molta in giro, di carta stampata. La signora Pakowsky anticipò il marito.
«E chi sarebbe il genartista?» chiese.
«Robert Greenberg. Un giovane con molto talento e tanta sfortuna. Ha ricevuto pesanti critiche negative per i suoi ultimi lavori dalla maggior parte della stampa.»
«Come mai?» si interessò Adam.
«Freak-art. Ha composto alcuni lavori per un paio di coppie eccentriche dell'alta società cittadina. Ma la freak-art non è vista di buon occhio dall'opinione pubblica, e i critici tendono a svalutarla... Doti come la capacità di osare, l'audacia e l'originalità, qualità che hanno sempre valso molto, nel mondo dell'arte. Ma chi osa rischiare il posto in nome dell'arte, oggigiorno?»
«Non saprei, dottor Clavell... A me sembrano comunque dei mostri...» rispose ingenuamente Adam.
«Probabilmente l'occhio inesperto di qualcuno avrà dato lo stesso giudizio anche della Guernica di Picasso, quando la pittura era molto più apprezzata di adesso.»
Loise era immersa nella lettura della recensione di suo figlio.
D'improvviso apparve l'immagine di una graziosa ragazza, di fianco alla scrivania. L'immagine restò immobile, ed attraverso la sua trasparenza Adam si accorse che la sera era calata sul porto.
«Dimmi pure.» comandò vocalmente il dottor Clavell.
«C'è il suo assistente, il dottor Taylor, che desidera parlarle urgentemente.»
La voce era palesemente elettronica.
«Digli che sono occupato. Ci sono i signori Pakowsky qui con me.»
«Lo sa, dottor Clavell. Vorrebbe parlare con lei prima che li congedasse.»
Il dottor Clavell era evidentemente imbarazzato.
«Scusatemi. Ci vorrà poco.»
«Non si preoccupi, faccia pure.» gli rispose Adam. La signora Pakowsky invece, non alzò gli occhi dai fogli che teneva in mano. Clavell uscì dalla stanza, e l'interfaccia visiva del suo computer scomparve, ma non prima di aver salutato con un cenno gentile della testa. Per qualche minuto, il signor Pakowsky non disse nulla. Si alzò, oltrepassò la scrivania, passò di fianco alla pianta da ufficio. Si accorse che era di plastica, una pianta finta. Ne toccò una foglia, e sentì fra i polpastrelli delle dita tutta la sinteticità di quell'oggetto ornamentale. Poi si voltò verso la vetrata. Invece di scorgere la città, finì per guardarsi negli occhi. Le sue sopracciglia lunghe e sottili, il suo naso lineare e preciso. La fossetta asimmetrica, artistico omaggio a Janet La Tourrette, la prima genartista donna di successo. Alzò la mano e toccò il vetro. Per un attimo gli parve di trovarsi oltre quella superficie trasparente, come uno spettro, prigioniero in una teca trasparente, fredda e male illuminata. Staccò le dita dal vetro. Tentò di guardare oltre il riflesso. Le luci della città di notte. Ma due luci più di tutte, il suo stesso sguardo. No. Non andava. Sconfitto, si voltò.
«Mi sembra un'ottima recensione. – esordì Loise. – Incisiva, efficace. E poi è vero. Un genartista di successo non avrebbe potuto fare di meglio. Alcuni particolari fisionomici sono veramente geniali, ed innovativi oltretutto.»
Adam restava immobile, con le spalle rivolte alla città nella sera.
«Cosa c'é, Adam? Un mal di testa improvviso?»
«Io... Io non credo che dovremmo farlo... Loise.» Le parole gli uscirono a singhiozzi dalla gola.
«Che vuoi dire, Adam? Che rischiamo troppo?»
Lui si poggiò al vetro. Cosa risponderle? Non lo sapeva. Ancora non capiva cosa c'era che lo rendeva così inquieto. Lasciò parlare Loise.
«Senti, Adam... – riprese lei – E' vero, quello che stiamo facendo non è legale. Ma hai considerato la situazione? Isaac è stato un errore, Adam. Allora non ne ero del tutto convinta, ma ora sì. Figlio naturale di due opere genetiche. Che futuro avrà? Lo stato non gli passerà un soldo. Dovrà studiare, cercarsi un lavoro, mantenersi. E' la vita che hai fatto tu, forse? E' la vita che vuoi riservargli? Immagina invece cosa diranno i mass media di lui, se il piano del dottor Clavell va in porto. Sarà un'opera dell'arte genetica, figlio di due opere di già confermata preziosità. Sarà facile che acquisti valore, ed avremmo facilmente delle sovvenzioni statali. Crescerà al centro dell'attenzione dei critici, e magari qualche miliardario eccentrico ce lo adotterà a distanza, come accade di frequente con le opere genartistiche più preziose. Avrà vita facile, successo, e non gli mancherà mai nulla. Sai di cosa sto parlando vero?»
«Sì.»
«Santo cielo. Adam! – Si alzò in piedi e lanciò i fogli della recensione sul tavolo. – E allora che cos'hai?»
Adam la guardò in volto. Con lo sguardo tentava di entrargli nel cervello.
«Tu... Loise... Hai mai pensato... A che volto avresti avuto... In realtà? – Lei piegò la testa. Sconsolata. – Vedi Loise, il mio dito indice è lungo esattamente dieci centimetri, dall'attaccatura alla punta. Hanno scritto articoli sul mio dito indice. Ed anche sul mio naso, sulla mia schiena. Sul mio neo, poco sopra l'ombelico. Quando ero bambino, sotto le coperte, restavo sveglio a pensare al mio neo. Dove sarebbe stato, se nessuno avesse giocato con i miei geni? Ci sarebbe stato? Forse avrei avuto i capelli castani, come mio padre... Io non sono io, Loise.»
«Stai delirando, Adam. Nessuno di noi, neanche i nati naturali, scelgono come nascere. Essere biondo o castano, alto o basso, nero o bianco. Tutti nascono e vivono per quello che sono. Ma essere in un certo modo, portare una firma, come la tua o la mia, comporta dei vantaggi. E allora perché non scegliere il meglio, per tuo figlio?»
«Io voglio che lui sappia.»
«Sappia cosa?»
«Che non è come me e come te. Che lui è quello che doveva essere. Che è veramente se stesso.»
Loise passeggiò velocemente verso la porta. Si passò una mano fra i capelli.
«Glielo diremo. Quando avrà l'età giusta lo saprà.»
«E lo faremo vivere fino a quel momento nell'incubo che qualcun altro abbia scelto a che età sarai miope? O quando inizierai a perdere i capelli? O se il tuo sviluppo sarà precoce?»
«Sì, Adam, sì! Meglio questo che una vita da squallido medio-borghese, non credi? Se hai un auto di lusso, se puoi permetterti una villa al mare, se fai parte di un club di golf, è perché sei quel che sei! Ricordatelo!»
«Non riesci a pensare ad altro, Loise? Solo al benessere economico? Guarda qui!»
Aprì la bocca. Tirò fuori la lingua. Poi, allungandola con un po' di sforzo, riuscì a toccarsi la punta del naso. Loise lo osservò con sgomento.
«Ho scoperto di saperlo fare a quattordici anni. Lo sai cosa mi disse mio padre, quando glielo mostrai? – Lei attese in silenzio. – Disse: chissà cosa avrà voluto dire l'autore con questo?»
Per un attimo, si riuscirono ad ascoltare addirittura i rumori della strada.
«La mia infanzia è stata un incubo, Loise. Non voglio che lo sia anche quella di Isaac. Soprattutto se non è quello che gli spetta.»
Tutto nella stanza restò immobile per qualche minuto. I coniugi Pakowsky non incrociarono i loro sguardi neanche una volta, ed infine la porta si aprì, ed entrò il dottor Clavell. Nonostante i due fossero visibilmente turbati, il dottore non ci fece caso. Passò davanti ad Adam, scostò la sua poltroncina e si sedette alla scrivania.
«Sedetevi, per favore.»
La signora Pakowsky tornò alla sua sedia. Suo marito no. Clavell continuò lo stesso:
«Sono costretto a ritirare la mia offerta di... collaborazione, signori Pakowsky. Mi dispiace.»
Adam restò pietrificato.
«Perché? Cos'è successo?» domandò con aggressività sua moglie.
«Ecco vede... Voi tutti sapete che ogni opera genartistica è firmata dal suo autore. Lei, signora Pakowsky, dovrebbe avere la firma proprio sotto il seno sinistro, come ogni Vautrine che si rispetti. L'avrà sicuramente anche lei, Adam, anche se non so dove il suo autore ha preferito apporla. – Lui annuì. – Ora queste firme, più di mezzo secolo fa, venivano semplicemente tatuate sulla pelle dell'opera. Un metodo che però aveva degli svantaggi. Ad esempio una cicatrice poteva cancellare la firma. Peggio ancora, abili tatuatori potevano falsare le firme dei grandi artisti e spacciare false opere genartistiche sulla piazza. In seguito, con l'aumentare della conoscenza dei geni, le firme sulle opere cominciarono ad essere programmate dall'artista stesso durante la fase di composizione, controllando geneticamente la migrazione dei melanociti sulla pelle delle sue opere durante lo sviluppo embrionale. In effetti, le firme sui vostri corpi non sono altro che... nei, dalla forma bizzarra, che riproducono il nome del vostro autore.»
«Ma Isaac non ha questo tipo di firma.» intervenne Loise.
«Era quello che pensavamo anche noi. Avremmo posto una firma su di lui col vecchio metodo del tatuaggio, e poi l'avremmo fatta passare per una preferenza dell'artista. Ma incredibilmente... – Clavell lasciò la frase in sospeso. Per qualche secondo. – Isaac ha già una firma.»
La signora Pakowsky si tirò indietro sulla sedia, immobilizzata con la bocca aperta.
«Vuole dire... Che Isaac è un'opera genartistica? Ma è impossibile... Noi non abbiamo...»
«Non ho detto questo, signora Pakowsky. Ho detto solo che suo figlio ha già una firma. All'interno della natica sinistra. Durante il primo esame non ce n'eravamo accorti. Ma stamani, mentre voi eravate qui con me, i miei assistenti, eseguendo il secondo esame che voi avete autorizzato, l'hanno trovata.»
Adam sorrise con indicibile gusto.
«E' proprio dove è posta la mia... Ha preso da suo padre!»
«Si, signor Pakowsky, tuttavia non possiamo dire che si tratti della firma del suo autore, Luigi de Rosi. L'influenza dei geni materni ha storpiato le 'lettere', se così vogliamo chiamarle... Eh, beh, questo è il risultato.»
Estrasse un pad fotografico dalla tasca, e lo diede alla signora Pakowski. Loise lo girò e lo osservò con stupore.
«Che cosa... Che cosa c'è scritto?» chiese lei.
«E' uno scarabocchio, signora Pakowsky. Non c'è scritto nulla. Se la seconda lettera è una "G" e l'ultima una "F" potremmo quasi leggerlo... "MGTARBBF"...» Pronunciò la parola al meglio delle sue possibilità, e poi nascose il sorriso. Proseguì tentando di concludere il discorso:
«Le leggi sono chiare riguardo le opere genartistiche. Possono avere una sola firma, ed il nome dev'essere leggibile. Nessuno crederà che esista un nome o un cognome del genere. D'altro canto, è palese che il fenomeno è causato da un semplice caso di ereditarietà, e quindi è la prova che vostro figlio è... naturale.»
Nella stanza scese il gelo. Passarono una dozzina di lunghissimi secondi.
La signora Pakowsky si alzò dalla sedia, con una calma innaturale. Si mise in spalla la borsetta, poggiò il pad fotografico su un angolo della scrivania, poi tese la mano verso il dottor Clavell.
«Allora arrivederci, dottore.»
«Arrivederci.» rispose Clavell stringendole la mano. La signora Pakowsky uscì dalla stanza.
Adam girò intorno alla scrivania fino a trovarsi davanti a Clavell. Diede uno sguardo alla foto riprodotta nel pad, e sorridendo strinse anche lui la mano al dottore.
«Che cos'ha da ridere?» chiese con onesta curiosità Clavell.
«Niente, dottore. La ringrazio.» rispose il signor Pakowsky.
«Suo figlio la sta aspettando al primo piano... Non ho fatto in tempo a dirlo a sua moglie...»
«Non si preoccupi, glielo dirò io. Eccome se glielo dirò.»
Si aggiustò la giacca, e uscì dalla stanza.
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