domenica, novembre 28, 2010

Fenomenologia degli Zombi

Mi piacerebbe leggere qualcosa di interessante e ben scritto su quella che mi piace chiamare "fenomenologia degli zombie". Dilagano veramente, i morti viventi. Non nella realtà (o forse sì, ma ne parlerò dopo), bensì in tutte le forme di intrattenimento possibili. Dapprima nei film e nei romanzi, portati al successo da George Romero e dai suoi epigoni; poi nei videogiochi, dove sono stati riciclati, convertiti, adattati e remixati in tutti i modi possibili (da House of the Dead a Plants vs Zombies), infine fumetti, serie televisive, spot che rimandano a film e libri del genere, fino alla caleidoscopia mediatica: film tratti da videogiochi ispirati a film di zombi (Resident Evil ne è l'esempio più lampante, ma anche il sopra citato House of the Dead ha avuto ben due film ispirati al videogioco, e un terzo è in produzione). E vogliamo parlare di Orgoglio e Pregiudizio e Zombie? La riscrittura del romanzo di Jane Austen con l'aggiunta di morti viventi. ...personalmente trovo l'idea geniale. Ma è solo un altro esempio: gli zombi dilagano attorno a noi. Qualcuno avrà fatto una ricerca, quindi. Ci deve essere una base sociologica se gli zombi piacciono così tanto (The Walking Dead, la serie tv trasmessa da Fox ha avuto il miglior esordio di tutte le serie Amc per dati di ascolto). Come mai?

Qualcuno, tempo fa, mi fece riflettere sull'immagine della morte. I morti viventi rappresentano la morte, una paura atavica dell'uomo, che improvvisamente in questi film ci troviamo a fronteggiare. Non moriremo, torneremo in vita. Il nostro corpo straziato si trascinerà per il mondo cercando i vivi per divorarli. I nostri amati cari irromperanno nelle nostre case per strappare brandelli della nostra carne. Sono in effetti tutte componenti valide della "paura degli zombi". Ma appunto, sono motivazioni che ce li rendono terrificanti, non amabili. Invece lo zombi è sempre più un'icona amata, un simbolo, qualcosa che (come dice lo stesso Romero) "non muore mai". I racconti, i romanzi, i film di zombi ormai hanno esplorato ogni terribile aspetto del fenomeno zombi: dalla corsa alla sopravvivenza (le regole di Zombieland e dei manuali di sopravvivenza appositi), alle conseguenze morali (sparare o no all'amico appena morso che si sta per risvegliare? un classico intramontabile), alle implicazioni sociali su vasta scala (crollo dell'economia, creazione di un nuovo tipo di società, vedi La Terra dei Morti Viventi). Inoltre alla paura della morte si possono aggiungere centinaia di altre componenti: la paura del contagio (come in 28 Giorni Dopo e in tutti quei libri o film dove il risorgere dei morti è conseguenza di un'epidemia), il crollo di qualsiasi sicurezza, la violazione dei nostri spazi, la corruzione della carne eccetera. Ma stiamo divagando. Il mio parere è che il "successo" dei morti viventi non può essere dovuto solamente all'attualità del modo in cui ci spaventano.

I primi film di Romero erano politici. Qualcuno dissentirà, dirà che erano horror come tanti e che come tanti altri film dello stesso genere avevano quella venatura di critica sociale che serve solo a rendere più interessante la trama (quando un film horror è fatto bene). In realtà io ci vedo molta più politica in un film di zombi di Romero che in una puntata di Ballarò, ma che volete farci, sarò malato. Quando mi viene presentata l'idea di un gruppo di disperati chiusi in un supermercato e assediato da gente morta che vuole mangiarseli, non riesco a non fare un centinaio di collegamenti con quello che succede nel nostro mondo tutti i giorni. Insomma, al di là di quello che dice lo stesso Romero: «Ho sempre simpatizzato per gli zombie, hanno un che di rivoluzionario. Rappresentano il popolo solitamente senza idee autonome che a un certo punto, stanco dei soprusi, si ribella. Eravamo noi nel '68. E ora siamo morti, no? I nostri ideali sono morti, io sono uno zombie.» mi pare che applicando il metodo Montessori a certi film, si possano trovare interessanti analogie con la realtà. E' per questo che gli zombi ci affascinano così tanto? ...perché li vediamo come una rilettura della faccia più triste della nostra quotidianità? Ripetere gli stessi gesti, ogni giorno, muoversi solo per mangiare, vivere, morire, e forse non morire mai, consumare, venire decerebrati da qualcosa che ti impedisce di uscire dalla massa, massificati e costretti a rivivere per sempre lo stesso giorno, finché qualcuno non ti spara in testa. Non sono zombi forse i ragazzi impasticcati che si scrollano di dosso il sudore al ritmo di percussioni caotiche in una discoteca? Non sono zombi le masse di lavoratori accalcate nei treni per pendolari, come carri bestiame, trasportati verso l'ennesima giornata di lavoro? Non sono zombi forse anche i dirigenti delle mega aziende che si nutrono della carne viva dei loro sottoposti, intascandone il sangue sotto forma di stipendi milionari, interessati solo ad accumulare soldi? mmmh no questi ultimi in effetti somigliano più ai vampiri. Ma non c'è dubbio che i loro sottoposti siano zombi. E i loro sottoposti siamo noi, i dominati. Ecco, lo zombi è l'icona del popolo dominato, morto, e tenuto in vita da una scintilla. La voglia di non morire, forse. Non si ostinano a morire, continuano a campare anche se quella non è più vita, è sopravvivere, a malapena. Ma non lo sanno.

Magari tutte queste sono chiacchiere a vanvera. Eppure sono sicuro che se facessi un giro nel reparto di saggistica di una grossa libreria, troverei anche più di un libro sull'argomento. Vorrei davvero sapere cosa li rende così interessanti, un genere intramontabile, un successo intergenerazionale. Proverò a documentarmi, un giorno o l'altro.

venerdì, novembre 26, 2010

Album

Ora ho anche un profilo su Flickr.
Se volete, potete seguire questo link.
Le foto che ho messo sono solo una piccola parte di quelle che ho scattato, ma mi hanno detto che va bene così, caricarne poche alla volta, aggiornare man mano.
Mi sta bene.
Nel frattempo, ho scoperto che si possono fotografare e lucciole. Forse dovrei rivedere qualche racconto.

venerdì, novembre 12, 2010

Lettera di LUIS SEPULVEDA al governo spagnolo

IL PAPA IN SPAGNA: 13.333 euro al minuto


Questo è un mistero tanto grande quanto ilmito della santissima trinità, tuttavia vale la pena porsi qualche domanda al proposito, e me la pongo come cittadino ingannato. Quest’anno, sulla base dei miei introiti dell’anno passato, ho pagato intorno ai 90 mila euro all’erario spagnolo, e di questo non mi lamento ma non solo: mi sembra giusto pagare imposte in quanto pretendo che la scuola pubblica e laica funzioni, che la sanità pubblica funzioni, che il trasporto pubblico funzioni, che la polizia risponda alle mie domande di aiuto in caso di necessità e che la giustizia sia sollecita. Per questo pago. Nella mia dichiarazione dei redditi, al momento di dichiarare quanto ho guadagnato in modo onorevole e senza sfruttare nessuno, ho cancellato, come sempre, il paragrafo mezzo nascosto che, a meno di non usare la lente, consegnerebbe una parte delle mie imposte alla chiesa cattolica spagnola e al Vaticano, a una religione che considero abietta perché lesiva dei diritti del 50% dell’umanità e delle donne, perché copre gli abusi sessuali sui minori commessi da diverse migliaia di degenerati con la sottana,perché rappresenta la parte più rozza e retrograda della società, e perché tutta la sua storia non si distingue in nulla da altre religioni il cui fondamentalismo oggi ci terrorizza. Ossia, non ho autorizzato lo Stato spagnolo e neanche il governo socialista a pagare, con i miei soldi, i 13.333 euro – tredicimilatrecentotrentatre! - che è costato ogni minuto del viaggio papale in Spagna. Se è per pagare il combustibile agli Hercules dell’aviazione, lo faccio conpiacere se si tratta di portare aiuto umanitario in zone che lo necessitino, o per trasportare i generosi volontari che vanno a dare l’esempio della solidarietà sociale, però non ho autorizzato lo Stato spagnolo né il governo socialista a pagare con i miei soldi il trasporto del «papa-mobile», quell’artefatto trasparente come una vetrina dimacellaio dietro al quale si trincera un tipo suppostamente amato. Un calcolo approssimativo dice che la visita papale in Spagna è costata più o meno 29.8 milioni di euro,e che a questa cifra grottesca si dovranno aggiungere gli apporti degli «sponsor» delle messe. Sulla bianca veste dell’ex-militante della Gioventù hitleriana non si leggerà «questa messa la offre il negozio di don Manolo, le migliori lenticchie», né «usate i preservativi Santa Gomita che non vi tradiranno», tuttavia imprenditori anonimi e pieni di soldi, di quelli neanche scalfiti dalla crisi, e banchieri la cui irresponsabilità ha provocato la catastrofe economica, il brodo di coltura in cui la destra spagnola senz’altre idee che eliminare le provvidenze sociali prepara il suo ritorno al potere, si fregano lemani calcolando di quanto defrauderanno l’erario. Era necessaria questa visita? Perché? Sarà che i socialisti hanno abiurato il rigore scientifico dell’economia e confidano solo in unmiracolo per superare la crisi? Qualunque abitante di Spagna sa che basta qualche goccia di veleno verbale del cardinale Rouco Varela, l’arcivescovo di Madrid e il presidente della Conferenza episcopale spagnola, perché i taleban del nazional-cattolicesimo facciano irruzione nelle strade, e se a questo si aggiungono certe riflessioni casuali del leader del Partido popular Mariano Rajoy - «non mi impegno a rispettare la legge sui matrimoni omosessuali» -, è già più che sufficente perché la visita del papa, pagata con le mie imposte e con quelle di tutti coloro che non defraudano il fisco, si sia convertita in un carnevale dell’odio alla libertà, alla costituzione, ai diritti che ci siamo conquistati. Dalla mia condizione di cittadino truffato, mi sono aggiunto a quelli che, alla vigilia, dicevano: «Herr Ratzinger, ich warte nicht auf Sie». Signor Ratzinger, io non l’aspetto.

(Per chi non sapesse chi è Luis Sepulveda, dopo un minuto di vergogna, cliccate qui).

mercoledì, novembre 03, 2010

Aurora

Questo è l'incipit di un lungo racconto che sto scrivendo. Non so ancora come va a finire, ma le elucubrazioni attorno al silenzio, inteso come stato di stasi, sono interessanti. Questa è la prima stesura, quindi sarà piena di errori, ma chissenefrega.

Dopo una lunga serie di trambusti, la casa sembrò sprofondare nel silenzio più assoluto. Aurora girò pagina, continuando a leggere come se fosse giunto un angelo a fermare il mondo, e finché il silenzio fosse rimasto a coccolarla niente sarebbe andato avanti. Né indietro.
Il libro era delizioso, ne aveva assaporato le prima cinquanta pagine, ed era curiosa di sapere come sarebbe andato avanti. Ma era difficile concentrarsi, con tutto quel baccano. Il vento freddo autunnale spingeva la pioggia contro il vetro della finestra della sua camera, con forza. Tuoni e lampi le impedivano di sospendere per sempre la percezione della realtà, e perdersi tra le righe. E i suoi genitori avevano continuato a litigare per ore e ore. Ma all'improvviso tutto si era cristallizzato, tutto era rimasto sospeso. La pioggia, il vento, i tuoni, i lampi e le grida rabbiose. Una pausa, neanche possedesse l'ipod nel quale è stato caricato il mondo, e avesse premuto stop.
Si rese conto che aveva girato pagina da qualche minuto, e con lo sguardo era giunta fino in fondo, ma nulla di quello che aveva letto le era rimasto in testa. Capitava, a volte. Leggeva, ma le parole, pur formando frasi di senso compiuto, e anche se quel senso veniva registrato dalla mente, scivolavano via, forse dalle orecchie oppure nella gola fino allo stomaco. Sparivano, si dissolvevano senza lasciare traccia. Era giunta alla fine della pagina e non ricordava cosa avesse letto.
Tornò con gli occhi in cima alla pagina. Il mondo era ancora in pausa, il silenzio si protraeva contro ogni sua più rosea previsione. Sentì raspare sotto il letto. Luce era spaventata.
«Luce vieni fuori. – disse, senza staccare gli occhi dalla prima parola della pagina – Luce, vieni qui da me.»
Il gatto tirò fuori la testa dalle coperte, ammucchiate a terra vicino al letto. Si era rifugiata lì sotto per colpa del temporale. Luce odiava i tuoni, così come i tuoni odiano la luce. Per questo i tuoni arrivano in ritardo, perché hanno paura a comparire assieme ai lampi.
Il gatto miagolò. Aurora sbuffò, e poggiò il libro sul letto. Con entrambe le mani afferrò il gatto e lo mise in piedi sul letto. Il gatto restò curvo per qualche secondo, come se la sua spina dorsale dovesse riprendere la forma precedente, dopo essere stata deformata nel sollevamento.
«Non avrai mica paura anche del silenzio?» Chiese Aurora.
Aurora aveva solo quindici anni, ma su tante delle cose del mondo si era già fatta un'idea precisa. Ad esempio sul perché i gatti non parlano. Non parlano perché non ne hanno bisogno. Cioè è chiaro che avrebbero potuto imparare a parlare, nel corso dei millenni, come ha fatto l'uomo. Ma ad un certo punto della storia, probabilmente qualche milione di anni fa, devono essersi resi conto che parlare non serviva a un cazzo. Allora ci avevano rinunciato. Così mentre l'uomo si impegnava a modulare i primi suoni gutturali per chiedere le cose, loro avevano imparato a ottenerle senza dire niente, o magari facendo solo: miao.
«Siediti qui.» Disse Aurora al gatto. Ma lui se ne fregò. Girò attorno ai piedi della ragazzina e si sdraiò sul fianco opposto del letto. Aurora riprese il libro.
La porta della camera si scosse. Qualcuno cercava di entrare, ruotando con forza la maniglia. Aurora sentì la voce del padre, che bestemmiava incazzato. La maniglia tintinnava e cigolava penosamente mentre qualcuno tentava di forzarla così brutalmente. Sembrava che gemesse, chiedendo pietà. «Non è colpa mia! E' la serratura! La serratura è chiusa dall'interno, l'ha chiusa Aurora! Aurora si chiude sempre in camera quando legge! Aiuto! Aiuto!»
Un colpo violento fece tremare addirittura le pareti della cameretta. Le piccole bambole allineate sugli scaffali di fianco alla porta caddero a faccia avanti sul tappeto rosa. Il papà stava prendendo a spallate la porta. Aveva smesso di prendersela con la maniglia, aveva scelto un avversario più grosso, ma non meno tenace. Bestemmiava ancora, se possibile con una rabbia maggiore. Poi si rivolse a lei.
«Aurora! Apri questa cazzo di porta o ti faccio il culo! Apri questa cazzo di porta!»
Magari se l'avesse chiesto prima di dare di matto, Aurora l'avrebbe accontentato. Ma adesso no, non se lo sognava nemmeno. Stranamente Luce non sembrava agitato. Guardava fisso verso la porta, placido, quasi sonnacchioso. Aveva paura dei tuoni, le bestemmie non lo colpivano. Aurora invece era agitata, il cuore le batteva forte in gola, lasciò cadere a terra il libro. Perse il segno.
«Aurora se non apri questa cazzo di porta, ti giuro che la sfondo!» Gridò il padre.
Ogni tanto capitava che fosse arrabbiato. Anzi furioso. Si alterava per un niente, e se non c'era sua madre a calmarlo subito, la furia di un attimo poteva protrarsi per tutto il giorno, tormentosa e insensata. Allora per calmarlo bisognava che si sfogasse, e se non c'era niente per sfogarsi finiva per picchiare la mamma. Niente di grave, un manrovescio, un calcio. Però qualche volta la spingeva contro un mobile o la faceva cadere. Insomma non è che la mamma se la cavasse con poco. Quando la vedeva a terra, inerme, che piangeva, la sua rabbia evaporava. Usciva di casa, e tornava con le scuse. E magari anche due pizze.
Ecco, il silenzio era finito. La pioggia aveva ripreso a scrosciare. Vento, lampi e tuoni. La porta e suo padre che cercava di sfondarla a spallate. Aurora prese Luce tra le braccia. Il gatto tentò di divincolarsi, ma la ragazza se lo poggiò sulle ginocchia a prese ad accarezzarlo. Nonostante la pioggia, il vento, i lampi, i tuoni e le vigorose spallate che il papà vibrava alla porta, Luce si abbandonò in grembo alla ragazzina. Caddero due piccoli omini della thun, rubicondi e sorridenti. I loro cocci schizzarono ovunque, sul pavimento. Aurora ne vide uno infilarsi in una delle sue ciabatte di snoopy. Cadde la sveglia, cozzando pesantemente sulla scrivania. Caddero il portafoto di lupo alberto e quello d'argento che Aurora aveva ricevuto in regalo per la cresima. L'ennesima forte scossa fece ribaltare la tazza colma di matite che Aurora teneva sulla scrivania. Tutto si rovesciò tra i quaderni, sulla sedia, e sul tappeto.
«Papà, smettila!» Urlò Aurora.
Il papà smise. Sentì i passi di suo padre allontanarsi riecheggiando, giù per le scale. Per quella sera l'aveva scampata, ma chissà come stava la mamma. Aurora aveva troppa paura per scendere e andare a controllare. Si guardò attorno spaurita. Nella stanza sembrava essere passato un tornado. Luce scese dal letto e iniziò a giocare con tutto quello che era caduto in terra. Lei allungò la mano e raggiunse il libro. Con le mani ancora tremanti per la tensione e lo spavento, voltò le pagine in cerca del segno che aveva perso e lo ritrovò, cinquanta pagine oltre la copertina, qualcosa più, qualcosa meno.