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Il dottor Draghi riprese fiato dopo l'ennesimo, devastante, colpo di tosse. Ormai la sua pettinatura era compromessa e gli occhiali erano scesi a metà del naso. Con la mano cercò di asciugarsi il viso, passandosi velocemente le dita attorno al ben curato pizzetto.
«Mi perdoni, cosa stava dicendo?» Domandò con voce rauca. Ma una nuova raffica di colpi di tosse lo assalì, impedendo al suo paziente di rispondere. Il paziente in questione era Giorgio Pirelli, un autista di filobus sovrappeso, con la moglie alcolista e l'amante nigeriana. Giorgio Pirelli soffriva di claustrofobia, ed era in terapia da diversi mesi. Era sempre stato claustrofobico, ma la sua paura per gli spazi chiusi negli ultimi anni era andata peggiorando, e ultimamente si ritrovava costretto a girare per la città tenendo le porte del filobus aperte, cosa che non tutti i passeggeri apprezzavano. Soprattutto d'inverno.
«Ho bisogno di un bicchiere d'acqua... torno subito.» Gli disse l'analista. Poi si alzò e uscì dalla stanza. Giorgio si guardò attorno. Ufficio pulito, in ordine. C'era anche un lettino, ma non era mai stato invitato a usarlo. E non l'avrebbe fatto, preferiva la sedia. Lavorava seduto tutto il giorno, le sedie erano qualcosa di familiare per lui, di comodo, di confortevole. Si appoggiò allo schienale facendolo scricchiolare, aggiustò il sedere sul cuscino, strinse i braccioli con entrambe le mani e si schiarì la gola. Pochi secondi dopo la voce di Draghi lo sorprese che fantasticava sulle fantasie floreali della carta da parati.
«Mi scusi... forse sono i postumi di un raffreddore.» Riprese il dottore. La sua sedia si scansò, ma il dottore non si vedeva. Giorgio restò un attimo immobile, sorpreso. Si voltò, per controllare se Draghi fosse alle sue spalle, ma si sentì incalzare da davanti: «Prosegua...»
Un buffo pupazzo di pezza saltò di colpo sulla sedia imbottita, arrampicandosi con goffaggine oltre la scrivania. Aveva tutta l'apparenza di un orsacchiotto, con due bottoni neri a fargli da occhi. L'orso di stoffa si sedette a fatica. Non era più alto di trenta o quaranta centimetri, e adesso se ne stava immobile su quella sedia enorme, come se fosse stato abbandonato da qualche bambino distratto.
«Cos'è, uno scherzo?» Asserì timidamente Giorgio. Accennò anche un sorrisino. L'orsacchiotto restò immobile e in silenzio. Poi, con la voce ferma del dottor Draghi, gli domandò: «Uno scherzo? Quale scherzo?»
Giorgio trasalì. Nel parlare, il pupazzo di pezza aveva mosso leggermente la testa.
«Dottor Draghi... lei è un orsetto giocattolo...» Disse timidamente Giorgio. L'orsacchiotto si sporse in avanti e con la mano di stoffa, senza le dita e con un pollice appena abbozzato, afferrò la bic vicino al blocco note dove Draghi appuntava le sue cose. «Lei crede che io sia un orsetto... giocattolo? Una bambola per bambini?» Chiese. Giorgio era disorientato, incredulo.
«Sì... lei... lei è un pupazzo imbottito! ...non ho le allucinazioni! ...è assurdo!» Gridò, agitandosi sempre di più.
«Vuole un bicchiere d'acqua? La vedo agitato.» Gli fece l'orsetto, ruotando la penna.
«Un bicchiere d'acqua? ...ma lei è un pupazzo di pezza!»
A quel punto Giorgio si passò la mano sugli occhi, fece scivolare le dita sulle sopracciglia e sbuffò con forza nel proprio palmo. Un'allucinazione, non c'era altra spiegazione. Non gli era mai capitato, ma era l'unica cosa razionale. Non era stata una giornata particolarmente pesante... il solito turno, un turista tedesco a cui spiegare che non si può comprare il biglietto sull'autobus, la mamma che ha chiamato per sapere come andavano le cose. Ma il caldo, forse la stanchezza accumulata in tutta la settimana. Di certo la cosa migliore era ignorare quello che aveva davanti, quello che i suoi occhi vedevano. Era semplice. Lo faceva già, tutti i giorni. Quando la moglie lo insultava, agitandogli a pochi centimetri dal naso una bottiglia di grappa mezza vuota. Quando uscendo dal pianerottolo di casa incrociava l'odiosa signora Pina, con quel suo grosso cane scemo, e lei lo malediceva con lo sguardo perché Giorgio non pagava mai con puntualità la quota del condominio. E intorno a lui, ogni giorno, c'erano i diecimila volti di tutte le persone che incontrava, mentre il filobus infilava stridendo una via dopo l'altra. Quindi poteva farlo, poteva ignorare il pupazzo. Ma non voleva, era stanco di fingere, di cancellare la realtà, di calare una tendina e non preoccuparsi nemmeno di quello che si intravedeva in controluce.
«Dottore... Credo di essere preda di un'allucinazione, la più terribile delle allucinazioni. – Confessò, scuotendo la testa e cercando di fissare l'orsacchiotto nel mezzo dei bottoni – Un'allucinazione terribilmente reale... e persistente... credo che lei debba aiutarmi.»
L'orsacchiotto si allungò sulla scrivania e spinse verso di lui una scatolina bianca colma di piccole pillole nere e rosse. «Ne prenda una. Starà subito meglio.» Disse.
Giorgio afferrò una pillola e la ingoiò rapidamente, senza nemmeno bisogno di un bicchiere d'acqua. Inspirò. Era vero, si sentiva già meglio. Ma l'orsacchiotto di pezza restava lì, sulla poltroncina del suo psicanalista, con la voce del suo psicanalista.
«Per oggi ci fermiamo qui.» Gli disse. E zompettando giù dalla sedia e attraverso la stanza, lo invitò alla porta. Giorgio raccolse le sue cose, salutò il pupazzo come se niente fosse, e si avviò giù per le scale. Sentiva che la pillola stava facendo effetto, iniziava a calmarsi. Uscì dal condominio e si ritrovò in strada. Il rumore del traffico, l'aria carica di polvere, il chiacchiericcio del marciapiede. Era la sua città. Si guardò intorno, sgranò gli occhi incredulo, poi il suo volto si fece bianco. Cadde a terra privo di sensi. Un coniglietto di peluche corse a vedere cosa aveva. «Chiamate un'ambulanza!» Gridò a una paperella di gomma. Ma una bambola di coccio lì nei paraggi disse «Chiamo col cellulare!» e fece lei il numero. Nel frattempo, una folla di gormiti si fermò a curiosare, scattando alcune foto.
«Mi perdoni, cosa stava dicendo?» Domandò con voce rauca. Ma una nuova raffica di colpi di tosse lo assalì, impedendo al suo paziente di rispondere. Il paziente in questione era Giorgio Pirelli, un autista di filobus sovrappeso, con la moglie alcolista e l'amante nigeriana. Giorgio Pirelli soffriva di claustrofobia, ed era in terapia da diversi mesi. Era sempre stato claustrofobico, ma la sua paura per gli spazi chiusi negli ultimi anni era andata peggiorando, e ultimamente si ritrovava costretto a girare per la città tenendo le porte del filobus aperte, cosa che non tutti i passeggeri apprezzavano. Soprattutto d'inverno.
«Ho bisogno di un bicchiere d'acqua... torno subito.» Gli disse l'analista. Poi si alzò e uscì dalla stanza. Giorgio si guardò attorno. Ufficio pulito, in ordine. C'era anche un lettino, ma non era mai stato invitato a usarlo. E non l'avrebbe fatto, preferiva la sedia. Lavorava seduto tutto il giorno, le sedie erano qualcosa di familiare per lui, di comodo, di confortevole. Si appoggiò allo schienale facendolo scricchiolare, aggiustò il sedere sul cuscino, strinse i braccioli con entrambe le mani e si schiarì la gola. Pochi secondi dopo la voce di Draghi lo sorprese che fantasticava sulle fantasie floreali della carta da parati.
«Mi scusi... forse sono i postumi di un raffreddore.» Riprese il dottore. La sua sedia si scansò, ma il dottore non si vedeva. Giorgio restò un attimo immobile, sorpreso. Si voltò, per controllare se Draghi fosse alle sue spalle, ma si sentì incalzare da davanti: «Prosegua...»
Un buffo pupazzo di pezza saltò di colpo sulla sedia imbottita, arrampicandosi con goffaggine oltre la scrivania. Aveva tutta l'apparenza di un orsacchiotto, con due bottoni neri a fargli da occhi. L'orso di stoffa si sedette a fatica. Non era più alto di trenta o quaranta centimetri, e adesso se ne stava immobile su quella sedia enorme, come se fosse stato abbandonato da qualche bambino distratto.
«Cos'è, uno scherzo?» Asserì timidamente Giorgio. Accennò anche un sorrisino. L'orsacchiotto restò immobile e in silenzio. Poi, con la voce ferma del dottor Draghi, gli domandò: «Uno scherzo? Quale scherzo?»
Giorgio trasalì. Nel parlare, il pupazzo di pezza aveva mosso leggermente la testa.
«Dottor Draghi... lei è un orsetto giocattolo...» Disse timidamente Giorgio. L'orsacchiotto si sporse in avanti e con la mano di stoffa, senza le dita e con un pollice appena abbozzato, afferrò la bic vicino al blocco note dove Draghi appuntava le sue cose. «Lei crede che io sia un orsetto... giocattolo? Una bambola per bambini?» Chiese. Giorgio era disorientato, incredulo.
«Sì... lei... lei è un pupazzo imbottito! ...non ho le allucinazioni! ...è assurdo!» Gridò, agitandosi sempre di più.
«Vuole un bicchiere d'acqua? La vedo agitato.» Gli fece l'orsetto, ruotando la penna.
«Un bicchiere d'acqua? ...ma lei è un pupazzo di pezza!»
A quel punto Giorgio si passò la mano sugli occhi, fece scivolare le dita sulle sopracciglia e sbuffò con forza nel proprio palmo. Un'allucinazione, non c'era altra spiegazione. Non gli era mai capitato, ma era l'unica cosa razionale. Non era stata una giornata particolarmente pesante... il solito turno, un turista tedesco a cui spiegare che non si può comprare il biglietto sull'autobus, la mamma che ha chiamato per sapere come andavano le cose. Ma il caldo, forse la stanchezza accumulata in tutta la settimana. Di certo la cosa migliore era ignorare quello che aveva davanti, quello che i suoi occhi vedevano. Era semplice. Lo faceva già, tutti i giorni. Quando la moglie lo insultava, agitandogli a pochi centimetri dal naso una bottiglia di grappa mezza vuota. Quando uscendo dal pianerottolo di casa incrociava l'odiosa signora Pina, con quel suo grosso cane scemo, e lei lo malediceva con lo sguardo perché Giorgio non pagava mai con puntualità la quota del condominio. E intorno a lui, ogni giorno, c'erano i diecimila volti di tutte le persone che incontrava, mentre il filobus infilava stridendo una via dopo l'altra. Quindi poteva farlo, poteva ignorare il pupazzo. Ma non voleva, era stanco di fingere, di cancellare la realtà, di calare una tendina e non preoccuparsi nemmeno di quello che si intravedeva in controluce.
«Dottore... Credo di essere preda di un'allucinazione, la più terribile delle allucinazioni. – Confessò, scuotendo la testa e cercando di fissare l'orsacchiotto nel mezzo dei bottoni – Un'allucinazione terribilmente reale... e persistente... credo che lei debba aiutarmi.»
L'orsacchiotto si allungò sulla scrivania e spinse verso di lui una scatolina bianca colma di piccole pillole nere e rosse. «Ne prenda una. Starà subito meglio.» Disse.
Giorgio afferrò una pillola e la ingoiò rapidamente, senza nemmeno bisogno di un bicchiere d'acqua. Inspirò. Era vero, si sentiva già meglio. Ma l'orsacchiotto di pezza restava lì, sulla poltroncina del suo psicanalista, con la voce del suo psicanalista.
«Per oggi ci fermiamo qui.» Gli disse. E zompettando giù dalla sedia e attraverso la stanza, lo invitò alla porta. Giorgio raccolse le sue cose, salutò il pupazzo come se niente fosse, e si avviò giù per le scale. Sentiva che la pillola stava facendo effetto, iniziava a calmarsi. Uscì dal condominio e si ritrovò in strada. Il rumore del traffico, l'aria carica di polvere, il chiacchiericcio del marciapiede. Era la sua città. Si guardò intorno, sgranò gli occhi incredulo, poi il suo volto si fece bianco. Cadde a terra privo di sensi. Un coniglietto di peluche corse a vedere cosa aveva. «Chiamate un'ambulanza!» Gridò a una paperella di gomma. Ma una bambola di coccio lì nei paraggi disse «Chiamo col cellulare!» e fece lei il numero. Nel frattempo, una folla di gormiti si fermò a curiosare, scattando alcune foto.
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