Avete presente il brucomela? E' un'attrazione piuttosto comune, tra queste giostre ambulanti. Una versione per bambini delle montagne russe. Una specie di trenino che corre su piccole rotaie. Solo che non è un trenino, bensì un mostruoso bruco verde. Il suo volto è deforme, gonfio e tumefatto, di colorito giallognolo e con due grotteschi incisivi che gli spuntano ai lati del labbro superiore. Il percorso del brucomela si aggroviglia su un piccolo spazio, facendo su e giù, entrando e uscendo da una enorme mela che in realtà è che un grosso tendone rosso sbiadito dal sole. I bambini salgono sul bruco, poi il bruco inizia a muoversi e tanto basta a stampare sulle loro facce dei sorrisi raggianti. Ma con me non funzionava.
«Siediti Melissa, io vado a prendere il biglietto.» Disse papà, aggiustandosi gli occhiali. Mi sedetti.
Il treno a forma di bruco era deserto, ma oltre la rete di sicurezza un paio di bambini della mia età mi stavano osservando curiosi. Ebbene sì: io avevo un papà che mi pagava un giro sul brucomela. Uno di loro, rubicondo e spruzzato di lentiggini, masticava a bocca aperta una focaccia al rosmarino, e di tanto in tanto si strofinava gli occhi con le dita unte. L'altro era sottile e riccioluto, e aggrappato alla rete vi si appoggiava infilando il naso tra le maglie. Gli occhi spalancati, la bocca spalancata. Sembrava morto folgorato, ucciso dall'alta tensione che correva sui fili metallici della recinzione. Ma non c'era elettricità su quei fili. Quella doveva essere la sua espressione naturale.
«Non mi faccia incazzare!» Sentii sbraitare. Era la voce di mio padre, la voce di quando era già molto incazzato. Sollevando un pugno stava minacciando il proprietario della giostra, moro e baffuto, chiuso nel baracchino, che gli contrapponeva un'espressione infastidita e un dito indice alzato.
«Ma lei sta scherzando? Sarà il primo cliente della giornata e vuole che mi faccia fregare cinquanta euro?» Rispose l'uomo dai capelli neri e ricci, la carnagione scura e i baffi folti.
«Io non le sto fregando niente! Le ho dato cinquanta euro e lei mi ha dato il resto di venti!» Spiegò con fervore il mio genitore, quindi si lasciò andare a invettive contro il degrado della creanza nel nostro presente, che indussero l'uomo con i baffi a spazientirsi e a minacciare di chiamare i carabinieri. Poi aggiunse, abbassando leggermente il tono: «Quindi seppure volessi fregarle qualcosa, sarebbero trenta euro e non cinquanta... impari a fare i conti!»
L'argomentazione era talmente valida che il giostraio ritenne adeguato tirargli un pugno in faccia. Ne scaturì una colluttazione (o come piace dire oggi, un tafferuglio) che per qualche minuto attirò non pochi curiosi, prevedibilmente annoiati da quella paciosa e perfetta domenica. Nel frattempo il bambino lentigginoso finì la focaccia, e quello riccioluto si voltò e corse via. Come se si fosse ricordato d'improvviso che l'infanzia fugge e non c'è tempo da perdere. Io invece aspettai, seduta sul sedile di plastica, con le dita strette sul corrimano di sicurezza.
«Andiamo via, Melissa! Papà ti compra un gelato.» Mi disse, avvicinandosi alla giostra.
Scesi, gli afferrai la mano. Ci allontanammo. La sua faccia adesso somigliava a quella del brucomela.
mercoledì, giugno 15, 2011
il Brucomela
Ho scritto questo racconto di getto, raccogliendo una sfida: cercare di rientrare in un massimo di 750 parole. Ebbene, ne conta esattamente 750. Buona lettura.
*** *** ***
Non so molto sui gusti delle altre bambine di nove anni, ma io a nove anni trovavo che le giostre fossero inquietanti, soprattutto quelle ambulanti. Il mio sentimento nasceva come una sensazione di disagio che mi fioriva alla bocca dello stomaco non appena scorgevo sulla strada di casa il profilo dei pannelli colorati illuminati dalle luci intermittenti. Così come il volto di un pagliaccio, mascherato per trasmettere ilarità può giungerci profondamente malinconico, allo stesso modo le sgargianti lamiere delle giostre ambulanti, che avrebbero dovuto trasmettermi un senso di allegria e di festa, ai miei occhi apparivano cupe e tristi. Ogni fila di luci colorate che circondava le giostre era interrotta una o più volte da lampadine fulminate che non erano state sostituite. I pavimenti dondolavano sotto i passi dei clienti, rumoreggiando come enormi lattine vuote. Tra le fessure delle impalcature l'erba del prato sottostante andava lentamente soffocando. Osservando i disegni vivaci delle pareti non mi era difficile fermare lo sguardo su striature di ruggine, graffi, toppe, screpolature della vernice. Le irritanti musichette da videogioco si sovrapponevano alla rombanti colpi di basso della musica techno, generando una cacofonia continua e lamentosa. Il mosaico di ognuno di questi dettagli si ricomponeva ogni volta dentro di me, inesorabilmente, e quando con mio padre ci avvicinammo alla giostra, io ero già preda di quella strana forma d'ansia.
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