mercoledì, marzo 16, 2011

Studenti, 3


STUDENTI
terza parte (qui la prima parte, qui la seconda parte)

Sebbene in una situazione normale non sia certo rassicurante sentirsi dire da uno sconosciuto (oltretutto dall'aspetto tutt'altro che ordinario) che egli è un ladro, questa non era proprio una situazione normale. Cristina emise un sospiro di sollievo e si sedette. Marco e Fabio lasciarono cadere gli zaini a terra e si sentirono in qualche modo tranquillizzati. Un ladro! Un ladro cosa può farti? Al massimo ti ruba qualcosa. Marco pensò al suo cellulare. Un vecchio modello di Nokia scassato che da tempo pensava di sostituire, ma non aveva mai un soldo in tasca. In tasca aveva anche un pacchetto di gomme, gusto spearmint. Fabio il cellulare l'aveva lasciato a casa, nemmeno si ricordava dove. E quando fu costretto a pensarci, d'improvviso si ricordò: era in bagno, sul lavandino. Aveva mandato un messaggio a Marco prima di lavarsi i denti e se l'era scordato lì. Beh meglio nessuno glielo avrebbe fregato. Cristina pensò alla catenina d'argento che portava al collo, e agli orecchini... cose di poco valore ma che quel ladro avrebbe potuto portarsi via. Gli sarebbe dispiaciuto, la catenina era un regalo della cresima. Cristina aveva anche un cellulare, ma non ci teneva poi così tanto. La cosa che le sarebbe davvero dispiaciuto perdere erano tutti gli sms di lei e Marco, quelli che si erano scritti fino a quel momento, la prova provata del loro eterno amore.
«Guardi che noi non abbiamo un soldo.» Affermò a quel punto Fabio. Era vero, almeno per quanto lo riguardava. Altrimenti si sarebbe preso un bel pezzo di pizza appena arrivato alla stazione.
«Ma io non sono quel tipo di ladro. - Spiegò l'uomo. E si poggiò di traverso sul bracciolo del primo sedile alla sua destra. - Lasciate che mi presenti come si deve, prima che sia troppo tardi.»
Inutile dire che quel “prima che sia troppo tardi” suonava malissimo.
«Dicevo, mi chiamo Anacleto, e sono un ladro. Ma non rubo soldi, e nemmeno oggetti di valore. Quello che sottraggo alle persone è una cosa molto più preziosa: il tempo. Il vostro tempo, per la precisione. Perché il mio è finito un sacco di anni fa, e adesso non mi resta che rubarlo agli altri.»
Santo cielo! Pensò Fabio. Aveva visto film horror con una trama più originale. Cos'era questa roba? Una specie di puntata di X-files? Cosa voleva questo tizio, fargli credere che lui era una specie di fantasma e che presto sarebbero invecchiati fino a sgretolarsi in polvere, vittime di un incantesimo demoniaco?
«Senta, guardi che noi non abbiamo tempo da perdere...» Disse il ragazzo, sistemandosi il berretto. Ma si pentì di quello che aveva appena detto, perché in effetti si rese conto che loro di tempo da perdere ne avevano tantissimo. E Anacleto lo interruppe subito.
«Sono io che non ho tempo da perdere, ragazzi. Non vedete quanto invecchio velocemente? Fra qualche minuto i miei capelli saranno tutti grigi, e poi diverranno bianchi. Poi inizierò a camminare curvo, e infine cadrò a terra... morto.»
Marco credette di capire cosa stava succedendo. Per un attimo, solo per un attimo, prestò la propria fiducia a quell'uomo, e finse di credere a tutto questo. Come se stesse accadendo veramente. Un ladro di tempo, uno che ruba il tempo perché non ne ha più. Sarebbe addirittura poetico, se non fosse così grottesco. Ma una volta superata l'incredulità, cominciò a ragionare e disse:
«Quindi adesso ruberai il nostro tempo... e diverrai di nuovo giovane.»
L'uomo scosse il capo, ma non per annuire. I suoi capelli, sempre più lunghi e cesposi, si erano quasi completamente coperti di grigio. Le mani erano divenute ossute, la pelle delle braccia si era seccata e quel poco che si intravedeva del collo si era asciugato.
«Vedete, - disse Anacleto – quando rubo il tempo, lo faccio sempre un po' per volta. Una o due ore al giorno a ogni persona che incontro. Non se ne accorgono nemmeno. Di tempo se ne perde così tanto! ...chi vuoi che si accorga di aver perso un'ora o due incrociando me? Praticamente nemmeno ci fanno caso. Continuano a vivere la loro vita senza badare al tempo che hanno perso. Nessuno mi nota, nessuno si rende conto di quello che perde, e men che mai di glielo sottrae.»
Poi il suo sguardo si fece triste, e chinò la testa.
«Ma oggi mi andava di scambiare quattro chiacchiere con voi. Mi capita di sentirmi molto solo, ed erano anni che non parlavo con nessuno. Vi ho notato dal fondo del vagone mentre travolgevate quella anziana signora, entrando. Era come se non voleste perdere nemmeno un minuto del vostro tempo! Che arroganza! Ebbene sì, vi ho giudicato. Mi dispiace, mi sono sbagliato. Non siete affatto come sembravate. L'ho capito quando ho osservato lei che scriveva sul vetro. Quella che ha scritto non era una grande frase... ma almeno non era di Moccia.»
Calò il silenzio su tutti e quattro i passeggeri. Per qualche minuto restarono quieti ad ascoltare il battito delle ruote del treno sui binari, ritmico, costante, come quello di un cuore. Poi uno stridio metallico, poi un piegarsi di lamiere. Il treno sembrava voler commentare, dire la sua. Ma non disse niente, o perlomeno non aggiunse nulla di utile alla conversazione.
«Sediamoci qui.» Propose Anacleto.
Si sedettero vicini. La chioma di Anacleto iniziava a imbiancarsi, le sue braccia si erano già coperte di macchie e la sua voce si era fatta all'improvviso molto roca. Le mani di Fabio erano talmente sudate che non riusciva a smettere di asciugarle sui pantaloni. Marco era nervoso, così nervoso che quando Cristina gli strinse la mano la trovò tremante. Anacleto inspirò prendendo fiato, e iniziò a parlare.

Dapprima parlò dei suoi genitori, di come si erano conosciti, e amati. Proseguì raccontando della sua nascita. Disse di aver rivisto alcuni vecchi filmini girati in super8 di recente, filmini muti, senza audio, con i colori sbiaditi, filmini in cui era bambino e correva sul prato di fronte a casa. E poi raccontò delle feste di compleanno alle elementari, del peso della cartella alle medie, delle insicurezze di quando era adolescente. Tante figuracce, tanti rimorsi, tanti ripensamenti. Si fermò ad analizzarli uno per uno. Accennò ai suoi primi amori, e spese una mezz'ora intera a parlare della sua prima ragazza. Il cuore schiaffeggiato dagli ormoni che gli gridava di fare il contrario di quello che poi alla fine avrebbe fatto. Passò l'esame di maturità per culo. Crebbe velocemente fino all'università, trascorrendo lunghe serate in casa a studiare (davvero). Narrò di alcuni esami superati in maniera epica e di altri che non avrebbe meritato di passare. Poi di come spendeva i pomeriggi in aula studenti, tra risate e centinaia di fotocopie. Il sabato sera al pub e il mercoledì al cinema (ché costava meno). Disse di aver comprato una casa, e assieme alla casa, di aver ricevuto anche una compagna. Divise in due la propria vita e la rimise insieme molte volte, ma non smise mai di consumarla. Vendette la sua quinta automobile quando divenne troppo miope per guidare, e troppo stanco per fingere di vederci bene. Non ebbe figli ma crebbe quelli dei suoi fratelli. E quando Anacleto cominciò a parlare della propria malattia, Marco, Fabio e Cristina si resero conto che i capelli sulla sua testa, radi e fragili, erano divenuti bianchi come la luce delle lampade al neon accese sopra di lui. La voce di Anacleto si fece flebile e i suoi gesti sembravano più guidati da spasmi che da movimenti volontari. Appoggiò il capo al finestrino, e prima di morire sussurrò questa frase: «La morte si sconta vivendo.»
Il suo corpo scomparve nel nulla un attimo dopo, lasciando i tre ragazzi impietriti. Per dei lunghissimi secondi non ebbero la forza nemmeno di torcere il collo, di guardarsi negli occhi.
«Credo che sia di Ungaretti.» Mormorò Fabio.
«Eh?» Fece Marco.
«Si avvisano i signori passeggeri che il treno è in arrivo alla stazione di termine corsa.» Gracchiò l'altoparlante. Un paio di minuti dopo riconobbero gli edifici del loro paese. Quando la porta si aprì, si resero conto che il treno non aveva fatto nessuna altra fermata a parte quella finale. O forse, semplicemente, non se ne erano accorti.
«Io me ne vado a casa.» Disse Fabio, calcandosi il berretto sulla testa e issando lo zaino in spalla.
«Tu che fai?» Chiese Marco a Cristina.
«In che senso?» Le domandò lei, con la testa ancora immersa in un groviglio di pensieri.
«Vieni a pranzo da me? Non mi hai ancora risposto.»
Cristina annuì. Si allontanarono ognuno per la sua strada, come se non fosse successo nulla. Da qualche parte e in un modo che nessuno di loro può ben comprendere, a quei tre ragazzi è stato rubato del tempo. Ma come tanti altri, non se ne sono accorti. O forse hanno preferito far finta di niente.

fine

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