venerdì, dicembre 31, 2010
Drizzit 0.1
mercoledì, dicembre 29, 2010
Adoro il bosco d'inverno
domenica, dicembre 26, 2010
BuoNNatale
martedì, dicembre 21, 2010
La Costituzione
sabato, dicembre 18, 2010
Vaffanculo la governabilità
domenica, dicembre 12, 2010
Un saluto alla Fumetteria
venerdì, dicembre 10, 2010
Wikileaks
giovedì, dicembre 02, 2010
Vi veri universum vivus vici
domenica, novembre 28, 2010
Fenomenologia degli Zombi
venerdì, novembre 26, 2010
Album
Se volete, potete seguire questo link.
venerdì, novembre 12, 2010
Lettera di LUIS SEPULVEDA al governo spagnolo
IL PAPA IN SPAGNA: 13.333 euro al minuto
mercoledì, novembre 03, 2010
Aurora
Il libro era delizioso, ne aveva assaporato le prima cinquanta pagine, ed era curiosa di sapere come sarebbe andato avanti. Ma era difficile concentrarsi, con tutto quel baccano. Il vento freddo autunnale spingeva la pioggia contro il vetro della finestra della sua camera, con forza. Tuoni e lampi le impedivano di sospendere per sempre la percezione della realtà, e perdersi tra le righe. E i suoi genitori avevano continuato a litigare per ore e ore. Ma all'improvviso tutto si era cristallizzato, tutto era rimasto sospeso. La pioggia, il vento, i tuoni, i lampi e le grida rabbiose. Una pausa, neanche possedesse l'ipod nel quale è stato caricato il mondo, e avesse premuto stop.
Si rese conto che aveva girato pagina da qualche minuto, e con lo sguardo era giunta fino in fondo, ma nulla di quello che aveva letto le era rimasto in testa. Capitava, a volte. Leggeva, ma le parole, pur formando frasi di senso compiuto, e anche se quel senso veniva registrato dalla mente, scivolavano via, forse dalle orecchie oppure nella gola fino allo stomaco. Sparivano, si dissolvevano senza lasciare traccia. Era giunta alla fine della pagina e non ricordava cosa avesse letto.
Tornò con gli occhi in cima alla pagina. Il mondo era ancora in pausa, il silenzio si protraeva contro ogni sua più rosea previsione. Sentì raspare sotto il letto. Luce era spaventata.
«Luce vieni fuori. – disse, senza staccare gli occhi dalla prima parola della pagina – Luce, vieni qui da me.»
Il gatto tirò fuori la testa dalle coperte, ammucchiate a terra vicino al letto. Si era rifugiata lì sotto per colpa del temporale. Luce odiava i tuoni, così come i tuoni odiano la luce. Per questo i tuoni arrivano in ritardo, perché hanno paura a comparire assieme ai lampi.
Il gatto miagolò. Aurora sbuffò, e poggiò il libro sul letto. Con entrambe le mani afferrò il gatto e lo mise in piedi sul letto. Il gatto restò curvo per qualche secondo, come se la sua spina dorsale dovesse riprendere la forma precedente, dopo essere stata deformata nel sollevamento.
«Non avrai mica paura anche del silenzio?» Chiese Aurora.
Aurora aveva solo quindici anni, ma su tante delle cose del mondo si era già fatta un'idea precisa. Ad esempio sul perché i gatti non parlano. Non parlano perché non ne hanno bisogno. Cioè è chiaro che avrebbero potuto imparare a parlare, nel corso dei millenni, come ha fatto l'uomo. Ma ad un certo punto della storia, probabilmente qualche milione di anni fa, devono essersi resi conto che parlare non serviva a un cazzo. Allora ci avevano rinunciato. Così mentre l'uomo si impegnava a modulare i primi suoni gutturali per chiedere le cose, loro avevano imparato a ottenerle senza dire niente, o magari facendo solo: miao.
«Siediti qui.» Disse Aurora al gatto. Ma lui se ne fregò. Girò attorno ai piedi della ragazzina e si sdraiò sul fianco opposto del letto. Aurora riprese il libro.
La porta della camera si scosse. Qualcuno cercava di entrare, ruotando con forza la maniglia. Aurora sentì la voce del padre, che bestemmiava incazzato. La maniglia tintinnava e cigolava penosamente mentre qualcuno tentava di forzarla così brutalmente. Sembrava che gemesse, chiedendo pietà. «Non è colpa mia! E' la serratura! La serratura è chiusa dall'interno, l'ha chiusa Aurora! Aurora si chiude sempre in camera quando legge! Aiuto! Aiuto!»
Un colpo violento fece tremare addirittura le pareti della cameretta. Le piccole bambole allineate sugli scaffali di fianco alla porta caddero a faccia avanti sul tappeto rosa. Il papà stava prendendo a spallate la porta. Aveva smesso di prendersela con la maniglia, aveva scelto un avversario più grosso, ma non meno tenace. Bestemmiava ancora, se possibile con una rabbia maggiore. Poi si rivolse a lei.
«Aurora! Apri questa cazzo di porta o ti faccio il culo! Apri questa cazzo di porta!»
Magari se l'avesse chiesto prima di dare di matto, Aurora l'avrebbe accontentato. Ma adesso no, non se lo sognava nemmeno. Stranamente Luce non sembrava agitato. Guardava fisso verso la porta, placido, quasi sonnacchioso. Aveva paura dei tuoni, le bestemmie non lo colpivano. Aurora invece era agitata, il cuore le batteva forte in gola, lasciò cadere a terra il libro. Perse il segno.
«Aurora se non apri questa cazzo di porta, ti giuro che la sfondo!» Gridò il padre.
Ogni tanto capitava che fosse arrabbiato. Anzi furioso. Si alterava per un niente, e se non c'era sua madre a calmarlo subito, la furia di un attimo poteva protrarsi per tutto il giorno, tormentosa e insensata. Allora per calmarlo bisognava che si sfogasse, e se non c'era niente per sfogarsi finiva per picchiare la mamma. Niente di grave, un manrovescio, un calcio. Però qualche volta la spingeva contro un mobile o la faceva cadere. Insomma non è che la mamma se la cavasse con poco. Quando la vedeva a terra, inerme, che piangeva, la sua rabbia evaporava. Usciva di casa, e tornava con le scuse. E magari anche due pizze.
Ecco, il silenzio era finito. La pioggia aveva ripreso a scrosciare. Vento, lampi e tuoni. La porta e suo padre che cercava di sfondarla a spallate. Aurora prese Luce tra le braccia. Il gatto tentò di divincolarsi, ma la ragazza se lo poggiò sulle ginocchia a prese ad accarezzarlo. Nonostante la pioggia, il vento, i lampi, i tuoni e le vigorose spallate che il papà vibrava alla porta, Luce si abbandonò in grembo alla ragazzina. Caddero due piccoli omini della thun, rubicondi e sorridenti. I loro cocci schizzarono ovunque, sul pavimento. Aurora ne vide uno infilarsi in una delle sue ciabatte di snoopy. Cadde la sveglia, cozzando pesantemente sulla scrivania. Caddero il portafoto di lupo alberto e quello d'argento che Aurora aveva ricevuto in regalo per la cresima. L'ennesima forte scossa fece ribaltare la tazza colma di matite che Aurora teneva sulla scrivania. Tutto si rovesciò tra i quaderni, sulla sedia, e sul tappeto.
«Papà, smettila!» Urlò Aurora.
Il papà smise. Sentì i passi di suo padre allontanarsi riecheggiando, giù per le scale. Per quella sera l'aveva scampata, ma chissà come stava la mamma. Aurora aveva troppa paura per scendere e andare a controllare. Si guardò attorno spaurita. Nella stanza sembrava essere passato un tornado. Luce scese dal letto e iniziò a giocare con tutto quello che era caduto in terra. Lei allungò la mano e raggiunse il libro. Con le mani ancora tremanti per la tensione e lo spavento, voltò le pagine in cerca del segno che aveva perso e lo ritrovò, cinquanta pagine oltre la copertina, qualcosa più, qualcosa meno.
mercoledì, ottobre 13, 2010
Siamo invasi dagli orchi
Professore, c’è un aumento della violenza oppure se ne parla solo di più?
Non mi interessa se vent’anni fa il numero dei crimini era lo stesso. Il problema è che noi, come società, siamo fermi. E questa è una colpa tanto più grave perché oggi c’è meno ignoranza che in passato.
Come si spiega l’indifferenza delle persone che, nella metropolitana di Roma, camminano accanto alla ragazza romena incosciente senza reagire ?
C’è un vortice di rassegnazione, cinismo ed egoismo che crea questa violenza. I giovani la respirano. Il video dell’aggressione a Roma è sconvolgente nella sua metafora: vecchi, giovani, uomini e donne passano di fianco al corpo della ragazza senza preoccuparsene. È una fotografia.
Di cosa?
Dell’Italia in cui il ministro Ignazio La Russa chiede di mettere le bombe sugli aerei, del Paese in cui il sindaco di Milano Letizia Moratti si guarda bene dall’andare a visitare il tassista in fin di vita all’ospedale. C’è un contesto in cui i compaesani di Sarah Scazzi che chiedono la pena di morte per lo zio assassino s’inseriscono naturalmente: è quello dell’imbarbarimento dovuto al fatto che la classe dirigente per prima non combatte le violenze.
A cosa allude ?
Abbiamo la più grande industria di Stato, quella della criminalità organizzata, che guadagna con la droga e agisce indisturbata.
Perché azienda di Stato?
Perché se lo Stato non combatte le mafie ne diventa complice, connivente. Si tollerano le cosche, si appoggiano le guerre, si anestetizzano le periferie: questo provoca l’incattivimento delle persone, la cultura dell’odio e della rabbia.
A proposito di droghe, crede che la violenza crescente dipenda anche dalla diffusione di sostanze stupefacenti?
Certamente. Ma, ripeto, la responsabilità è soprattutto collettiva, perché non combattiamo il fenomeno.
Gli omosessuali aggrediti, gli immigrati picchiati, i cadaveri delle due bambine rom ignorate sulla spiaggia di Napoli: le minoranze sono le prime vittime del clima che lei descrive.
È quel che succede quando c’è la paura. Il violento, da Hitler in giù, è un codardo. Non se la prende con chi si può difendere. I pestaggi al gay pride in Serbia, poi, dimostrano che quando un Paese è abituato alla violenza non abbandona quella tendenza, la riproduce nella quotidianità.
Come ci si può difendere?
Ciascuno deve essere consapevole che il Paese è invaso dagli orchi. Purtroppo sembra che il singolo sia costretto di nuovo a pensare da solo alla propria sicurezza. E questo è sintomo evidente dell’imbarbarimento. Soprattutto, ci vuole un coraggio da Savonarola, bisogna smetterla con la mediazione e con la mediocrità: è arrivato il momento di indignarsi.
da Il Fatto Quotidiano del 13/10/2010
venerdì, ottobre 08, 2010
Buon uomo e coglione
giovedì, ottobre 07, 2010
Pensioni in parlamento
martedì, ottobre 05, 2010
La nobiltà dell'indignazione
Mi chiamo Anita Pallara e sono una ragazza di 21 anni affetta da atrofia muscolare spinale, una malattia neurodegenerativa e totalmente invalidante. In parole povere, sono handicappata. Mi rivolgo al professor Joanne Maria Pini che vorrebbe buttare me e quelli come me dalla Rupe Tarpea: la disabilità non è un valore aggiunto, non è proprio un valore. È solo una condizione. Non voglio parlare di solidarietà e nemmeno di sensibilità. Io parlo di diritti. Il diritto all’istruzione ce lo garantisce la Costituzione. Le sue parole, professore, sono vergognose, pericolose, razziste e illegali. Ma che valore ha tutto ciò nel nostro Paese? A parte le ovvie reazioni di sdegno e le condanne morali, quale sarà la conseguenza reale? A voi tanti che parlate di “selezione genetica”: io non sono disposta a subire questa ignoranza nel 2010. Se non ci saranno delle forti prese di posizione da parte delle istituzioni e dei media, io mi recherò alla Prefettura di Bari e consegnerò la mia carta d’identità e il mio passaporto, rifiutando così la cittadinanza italiana. Non posso essere cittadina di uno Stato di questo tipo.
sabato, settembre 25, 2010
Stiamo facendo guerra alla pace
Sono moltissimi i motivi per cui esiste la guerra sia organizzata che privata e uno dei principali è che la guerra conviene a qualcuno. Ai produttori di armi, a chi non ha argomenti leciti e pacifici per far valere le proprie ragioni (o i propri tronaconti), a chi ha qualcosa di grosso da nascondere.
Perché ci sia la pace ci vuole innanzitutto una “cultura della pace“, che parta dalla conoscenza delle nostre pulsioni violente e arrivi a sublimarle attraverso pratiche non belligeranti. Esattamente il contrario della “Guerra nella scuola” che è ciò che il ministro Gelmini e il ministro La Russa vorrebbero. Il protocollo firmato di recente, che invita attraverso la scuola a imparare l’uso delle armi, a formare “pattuglie di studenti” (sic!) che competano in maniera sana, con pistole ad aria compressa e percorsi di sopravvivenza ritenendo in questo modo di “contrastare il bullismo” , è un chiaro intento di portare nelle scuole la “cultura della guerra“. Rimane da chiedersi come mai, in un’epoca in cui i genitori devono procurare la carta igienica per i propri figli e le palestre e gli impianti scolastici per la pratica sportiva, quella vera, sono a livello libico, si riescano a trovare così in fretta i fondi per far partire corsi di guerra truccati da esperienze di condivisione sociale. Il nome dato all’iniziativa “allenati per la vita” la dice lunga su come la nostra classe dirigente intenda la vita.
Dopo l’uscita sull’idea di insegnare Mike Bongiorno nelle scuole, giusto per capire come s’intende la cultura in questo Paese e questi corsi paramilitari di mussoliniana memoria, sarebbe il caso che i così detti politici di sinistra e i politici di destra che hanno a cuore il futuro dei propri figli e tutti quelli che dichiarano di credere in un Dio di Pace (che bello dirlo a parole!) facessero di tutto per defenestrare un ministro che sta creando danni che avranno un grosso peso sulle generazioni future.
Natalino Balasso, da Il Fatto Quotidiano
Post originale: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/23/stiamo-facendo-guerra-alla-pace/63927/
mercoledì, settembre 22, 2010
Zombi del Vuoto (revised)
lunedì, settembre 20, 2010
Il sonetto del Vaffanculo
giovedì, settembre 09, 2010
the Melancholy Death...
sabato, settembre 04, 2010
La massa e i solitari
martedì, agosto 17, 2010
La serendipità della gioventù
"Il bambino è re e custode del suo fantastico regno, ed è molto selettivo nello scegliere i suoi compagni. Il fatto che il suo regno sia così esclusivo non fa che provocare il tentativo, da parte dei grandi, di riconquistare la serendipità della giovinezza per recuperare quello che è irrecuperabile. Pochi disperati si sforzano a tal punto da guadagnarsi un posto in un centro di recupero alcolisti. Gli altri, dotati di un pizzico di sensibilità in più, leggono Calvin & Hobbes." - Garry Trodeau
lunedì, agosto 09, 2010
Marco 1
sabato, luglio 17, 2010
giovedì, giugno 24, 2010
Opinioni eretiche
In un incontro precedente, sempre a Torino, la sera del 19 settembre 2006, a cena Saramago mi aveva detto: “il mondo sarebbe molto migliore se fossimo tutti atei”. Gli feci scrivere quella frase su un foglio, che tengo da allora appeso nel mio studio. Non mi stupiscono, dunque, gli ottusi e sgraziati necrologi dell’Avvenire e dell’Osservatore Romano contro uno scrittore che non ha mai fatto mistero di pensare della religione tutto il male possibile.
Mi stupiscono invece i più subdoli elogi postumi di altri media “laici” a un pensatore comunista che, in vita, andava sistematicamente a testa bassa contro tutto il sistema che essi quotidianamente difendono. Ora che non c’è più lo schermo di un premio Nobel a difendere e proteggere certe idee, sarà più difficile continuare a leggerle, sia pure magari soltanto citate o bollate come “opinioni eretiche”.
domenica, giugno 20, 2010
Kennedy e il PIL
Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta."
martedì, giugno 15, 2010
Mazze da baseball e donne incinte
di Luca Telese
Accade nell’Italia delle guerre tra poveri. A Torino un extracomunitario, clandestino – maghrebino – massacra, a colpi di mazza da baseball una donna, italiana, dopo averla accusata di molestarlo, con i suoi abiti succinti.
È un esercizio violento e sadico, che suscita in noi emozione e rabbia. L’extracomunitario
manda la donna in ospedale: l’ha sfigurata, le ha fracassato sei costole. Foto segnaletiche
del criminale: aria torva, sguardo cattivo, pelle olivastra. Lei è viva per miracolo. Scopriamo sconcertati che era in attesa: ha perso il suo bimbo. Tutto il paese unito nel lutto. Questa gente se ne torni a casa sua, a delinquere.
Fiaccolata della Lega: partecipano molti cittadini non politicizzati, persino un sindaco di centrosinistra. Ci saremmo voluti essere pure noi, maledetti barbari. Un prete della Caritas difende il maghrebino: “Aveva problemi psichici”. Gli devastano l’ufficio: se li portasse in convento, questi teppisti. Tutti i tiggì aprono con le immagini strazianti del funerale. Una
piccola bara bianca, dirette dei cronisti commossi, lacrime dei fratellini. Il nonno in Chiesa: “Non perdonerò mai!”. Come dargli torto? Durante un Porta a Porta sull’impossibilità del perdono, brucia un campo nomadi, in periferia. Sbagliato, certo. Ma era abusivo.
A furia di essere buoni, distruggeranno la nostra civiltà, ci imporranno codici tribali, disprezzo per le donne.
Anzi no.
La mazza da baseball era in mano a un italiano. Un ultras della Juve. La madre, poi, era Rom. Aveva chiesto l’elemosina. Il bimbo, in fondo, era poco più di un feto. Forse l’aborto non c’entra con la mazza. È successo ieri. Torino, 14 giugno 2010. Perché drammatizzare? Ci sono notizie che non meritano la prima pagina.
da Il Fatto Quotidiano del 15/06/2010
venerdì, giugno 11, 2010
Tales from the Infinite Staircase
Leggo, e condivido col mondo.
"[...] the mood in a planescape adventure is very important. Nothing should be exactly as it seems. Planewalkers need to keep an open mind about everyone and everything. Enemies could be at any and every turn - but so could allies if a basher plays her cards right. Nothing's cut-and-dried, nothing's black-and-white.
[...] For a planewalker, it matters less who and what a cutter* is than what she believes. Events on the planes are governed as much or more by belief than anything else. Belief literally is power."
- Monte Cook, Tales from the Infinite Staircase
*cutter = inesperto, novizio dei piani
giovedì, giugno 03, 2010
L'importanza dello sfondo
Come prima di ogni cosa. Con mille e un sogno dietro di noi e senza azione.
Non posso immaginare di conoscere altre beatitudini se non questa: divenire colui che inizia. Uno che scrive la prima parola dietro a un punto di sospensione lungo interi secoli.
Mi viene in mente, pensando a questa osservazione, che noi, come i veri primitivi, continuiamo ancora a dipingere gli uomini su sfondo d'oro. [...] E' comprensibile, per riconoscere gli uomini fu necessario isolarli. [...] Pensa alla vita stessa. Ricorda che gli uomini hanno grandi parole e i loro innumerevoli gesti sono sempre pieni di enfasi. Se solo per un istante fossero quieti e ricchi come i bei santi dei dipinti medievali, vi troveresti dietro il paesaggio che è tutt'uno con loro.
[...] E poi ci sono istanti in cui l'uomo si staglia innanzi a te dal suo splendore, chiaro e silenzioso. Sono rari momenti di festa che mai potrai dimenticare. Da quell'istante lo amerai per sempre: con le tue mani, pervase di tenerezza, ti sforzi di ripetere i contorni della sua personalità, così come l'hai riconosciuta in quell'ora.
[...] E l'arte non ha fatto altro che mostrarci il turbamento in cui spesso ci troviamo. Ci ha recato angoscia invece di calma e di silenzio. Ha dimostrato come ciascuno di noi viva su un'isola diversa; e tuttavia ogni isola non è abbastanza lontana dall'altra perché si possa stare in tranquilla solitudine. Uno può disturbare l'altro, terrorizzarlo, perseguitarlo con un giavellotto - nessuno, però, può aiutare nessuno.
[...] Quando due o tre persone si riuniscono, non si può dire che siano insieme. Sono come marionette appese a fili tenuti da mani diverse. Solo quando un'unica mano li regge, su tutti scende un sentire condiviso che li muove all'inchino o alla lotta. [...] Solo in quell'ora di comunione, nella comune tempesta, all'interno della stanza in cui si incontrano, finiscono per trovarsi. Solo quando dietro di loro c'è uno sfondo, entrano finalmente in relazione.
Sia il canto sussurrato di una lampada o la voce di una tempesta, sia il respiro della sera o il gemito del mare intorno a te, sempre veglia alle tue spalle una vasta melodia intessuta di mille voci, dove da un punto all'altro il tuo assolo trova spazio. [...]
Anche noi qui davanti siamo così. Struggenti nostalgie che dispensano benedizioni. La nostra pienezza si compie lontano, nello splendore degli sfondi. Dove è volontà e movimento. Dove si narrano storie di cui noi siamo i titoli in ombra. [...] Noi siamo là mentre qui, in primo piano, muoviamo avanti e indietro.
Ricorda le persone che hai trovato raccolte, senza che attorno a loro vi fosse un'ora condivisa. I parenti, ad esempio, che si incontrano al capezzale di morte di una persona cara. Ciascuno vive in un proprio ricordo. Dall'uno e dall'altro le loro parole scivolano via, ignorandosi reciprocamente. Disorientati in un primo momento, le loro mani non si sfiorano, finché, dietro, il dolore si fa grande. Si siedono, chinano il capo e tacciono. Frusciando passa su di loro un mormorio, come una foresta, e sono vicini come non mai.
E se non è un grave dolore a gettare su di loro un unanime silenzio, gli uomini ascoltano la potente melodia dello sfondo ciascuno più o meno intensamente. Molti ormai non l'avvertono più. Sono come alberi che hanno dimenticato di avere radici e credono che il frusciare dei rami sia la loro vita, la loro forza. Altri non hanno tempo di prestarle ascolto. Non tollerano che un'ora li circondi. Sono questi, poveri senza patria, che anno perduto il senso dell'esistenza.
- da Rainer Maria Rilke, Appunti sulla melodia delle cose, Passigli Editore
...Questo mentre viene giù così tanta pioggia da far dimenticare a tutti che esiste un sole. Bello, quand'è così. :)
sabato, maggio 29, 2010
Amilcare
C'era un rumore fastidioso sullo sfondo. Amilcare si tirò sù dalla sedia sdraio dove stava facendo parole crociate, sul balcone, cercando invano di sfuggire all'afa di quel pomeriggio estivo. Con le dita dei piedi cercò in terra le ciabatte, mentre arcuando la schiena si sporgeva per capire da dove provenisse quello stridio insopportabile.
«Tatiana! - gridò raspandosi la gola con la sua voce rauca - Tatiana dove sei?»
La sua badante, Tatiana, era una ragazzotta straniera attorno alla trentina, che probabilmente non pesava meno di centocinquanta chili. Alta il doppio di Amilcare, era abbastanza robusta da sollevare il vecchio pensionato come se fosse un sacco di piume. Tatiana si prendeva 400 euro al mese, e trascorreva con Amilcare tutte le mattine, cinque giorni a settimana. Amilcare aveva imparato a non curarsi di lei, non le parlava e non le lasciava da fare le cose: Tatiana sembrava sapere tutto quello che c'era da sapere su come si gestisce una casa. Sapeva dove mettere le cose, quali pulizie fare, come sistemare i vestiti, cosa comprare per pranzo, e come cucinarlo. A fine mese prendeva i suoi 400 euro, e Amilcare si era abituato a lei tanto quanto all'assenza della sua cara moglie. Tatiana forse aveva lasciato la televisione accesa, oppure stava ascoltando qualcosa col suo i-pod e il brusio della musica a bassissimo volume, rimbombando nel suo apparecchio acustico, finiva per creare quel fischio. Forse.
«Tatiana? ...sei ancora in casa? Tatiana!» Ma nessuna risposta. Amilcare era solo. Con la mano tremante si tolse l'apparecchio dall'orecchio destro. Forse era difettoso. Il silenzio calò attorno a lui, quel silenzio naturale che lo cullava la notte quando era solito togliere quella scatoletta rosa da dietro l'orecchio per aiutare il sonno a trovare la strada di casa.
Ma niente da fare: quel suono stridulo, costante, trascinato... era ancora lì, ancora nella sua testa, ronzando continuamente sembrava rimbombargli fra le tempie senza nessuna intenzione di smorzarsi.
Amilcare barcollò per un attimo quando si sollevò in piedi. Poggiò l'apparecchio sul tavolinetto di vetroresina bianca, accanto al fodero degli occhiali e alla ciotolina con le pillole da prendere prima di cena. Scivolando sulla suola delle pantofole, raggiunse l'interno della casa. Un odore misto di cif e legno stagionato riempiva il soggiorno, colmo di mobili d'epoca che i giovani d'oggi si sognavano di comprare, all'Ikea. Il suono sibilava con più acutezza adesso, nonostante Amilcare avesse tolto l'apparecchio acustico. Forse era solo il silenzio, che lo rendeva ancora più insopportabile. Appoggiandosi a un comò quasi fece cadere la bomboniera del matrimonio di suo figlio, pietrificata su quel ripiano da vent'anni.
«Ah... forse ho capito... forse ho capito, razza di birbaccioni...» gongolò il vecchietto, tornando sui suoi passi e dirigendosi verso l'ampio ingresso. Col cazzo che potevano permetterselo, i giovani, un ingresso come quello. Bello ampio, con lo specchio, l'attaccapanni, la cassapanca e il quadro di un ciliegio in fiore. Adesso erano tutti openspace. O si entrava direttamente nel salotto. E chi poteva permettersi il lusso di un ingresso. Amilcare invece ce l'aveva. Frugò nella vestaglia a scacchi e tirò fuori la chiave dello sgabuzzino. «Mortacci vostra...» sussurrò mentre si chinava per infilare la chiave nel piccolo foro della porticina di legno. Era laccata di bianco, nascosta a due passi dall'ingresso, su un lato del corridoio. Alta appena un metro, Amilcare ci giocava con suo figlio quando lui era piccolo e si divertiva a nascondersi per casa. Quello era il suo nascondiglio preferito, e Amilcare faceva finta di non trovarlo per un sacco di tempo, aggirandosi per casa e bofonchiando “dove diamine si sarà cacciato quel ragazzino?”... e dallo sgabuzzino lo sentiva ridere. Che bei tempi.
Non c'era dubbio, il suono fastidioso veniva da là dentro. La chiave fece un paio di giri, Amilcare aprì la porticina. Ed eccolo lì. Un telefono cellulare acceso che col suo schermo luminoso illuminava debolmente l'angusto spazio davanti a lui. Tatiana doveva essersi dimenticata di perquisire l'ultimo rompiscatole, prima di gettarlo dentro. Amilcare si chinò in avanti, subendo in un istante tutti i dolori che la sua malandata schiena avrebbe avuto piacere di fargli provare in un pomeriggio intero. Raccolse il cellulare e iniziò a pigiare i tastini luminosi, azzeccando a caso il pulsante per spegnerlo. Il suono cessò.
Dal fondo della stanza strisciò verso la porticina il signor Romualdo. O Ronaldo? Qualcosa del genere. Coperto di polvere, denutrito, spettinato, ma ancora di aspetto rispettabile con la sua giacca scura e la cravatta rossa. I polsi legati e le caviglie bloccate gli impedivano di muoversi in altro modo. Aveva gli occhi gonfi di lacrime. Provò a bofonchiare qualcosa, ma con quello straccio infilato nella bocca era difficile farsi comprendere. Amilcare provò a interpretare.
«No, non la cambio la mia cazzo di tariffa della luce!» Gli rispose, secco.
Romualdo mise la testa fuori dallo sgabuzzino mugugnando più forte. Amilcare lo afferrò per i capelli e lo spinse di nuovo dentro.
«...ah era il contratto del telefono? ...o del gas? ...non importa! Non me ne frega un cazzo! Lasciami in pace, capito?»
Richiuse veloce la porticina, ignorando i colpi che provenivano dall'interno. La porticina era robusta, legno massello, mica come quelle porte di compensato che mettevano al giorno d'oggi nelle case fresche di costruzione. Amilcare si spostò a fatica fino in cucina, gettò il cellulare nella spazzatura, e si voltò per tornare indietro. Notò un biglietto giallo attaccato sul frigo. Strizzando gli occhi lo lesse. Diceva: “Finisco domani il testimone di Geova, vado a prendere Wadim che esce prima – Tatiana”.
«Eh la fretta! – borbottò Amilcare – E poi lo vediamo tutti come finisce. Che le cose si fanno a metà, si lasciano in sospeso...»
Dondolando precariamente tornò sul terrazzo. L'afa pomeridiana stava lasciando il posto alla frescura della sera. Quello era il momento migliore per godersi un po' d'aria in veranda. Che le case di adesso non ce le hanno più le verande, e nemmeno i terrazzi spaziosi come ce l'aveva casa di Amilcare, perché non conviene più farle. Chi se le può permettere? Il vecchietto si accasciò sulla sedia sdraio e allungò le dita per raccogliere l'apparecchio acustico dal tavolino. Poi ci ripensò. Tatiana aveva lasciato il lavoro a metà, non gli andava di sentir gemere e raspare sul legno per tutta la notte. Silenzio ci voleva. Altro che contratti della luce o del telefono, quello vendeva religione... a saperlo prima, Amilcare gli avrebbe offerto un bicchiere d'acqua. Inforcò gli occhiali, stese la testa e scacciando via altre riflessioni amare, lesse con attenzione la definizione del 14 verticale.